L’ultimo discorso di Sarkozy ha attaccato a testa bassa il ’68 e tutto ciò che ha prodotto, a suo dire, nella società francese: “Guardate come l’eredità del ’68 indebolisce l’autorità dello Stato!… Gli eredi del ’68 fanno l’apologia del comunitarismo, denigrano l’identità nazionale, attizzano l’odio della famiglia, della società, dello Stato, della nazione, della Repubblica”. E ancora, stando al resoconto fornito dalla Stampa del 30 aprile, l’eredità del ’68 ha distrutto la morale nella politica, “ha imposto il relativismo morale e intellettuale”.
Secondo Giuliano Ferrara, Sarkozy incarna quell’autorità paterna di cui si sente un gran bisogno, mentre Ségolène Royal presenta al pubblico il viso “rassicurante, materno, di una femminilità angelicata”. Ovvio che Sarkozy se la prende con il ’68 in polemica con la sinistra oggi incarnata da Ségolène.
Ma il ’68 e tutto quello che ha significato, non era un “cane morto”?
Non viviamo forse in tempi bui, in cui ha vinto il conservatorismo bigotto e aggressivo di Bush, e la violenza quotidiana contro le donne ci parla di un patriarcato nuovamente vitale e aggressivo?
C’è però chi la pensa in modo opposto. Ha avuto molto successo in Francia un pamphlet ora tradotto in italiano con il titolo “L’uomo maschio”. Veramente il libro di Eric Zemmour, giornalista del Figaro, si intitola “Le premier sexe”, evocando il famoso libro di Simone De Beauvoir sul “secondo sesso”. Ed è una lunga e animosa requisitoria contro la “femminilizzazione” della società, ormai completamente avvenuta per responsabilità del femminismo, una sorta di nuovo totalitarismo che ha sostituito il comunismo (con l’aggravante, secondo l’autore, di una alleanza strutturale con gli omosessuali).
Il testo di Zemmour è provocatoriamente pieno di rimpianto per un mondo di “uomini veri”, alla Jean Gabin, che si sentono in pieno diritto di esercitare il loro diritto di “caccia” verso l’altro sesso per soddisfare il loro inesauribile desiderio erotico, di comandare in casa con moglie e figli, di andare con prostitute naturalmente quando è il caso, e soprattutto di soddisfare il loro eros nell’esercizio del potere, che “è il male, la morte, il fallo, l’uomo”.
Si potrebbe liquidare il tutto come eccessiva volgarità nostalgica. Ma il libro di Zemmour nomina a suo modo una verità, soprattutto sul modo di vivere il sesso e il potere da parte di molti uomini, e dando voce a una sorta di risentimento maschile verso la liberazione delle donne esprime in forma diretta e esplicita sentimenti che riempiono un certo senso comune, non sappiamo quanto diffuso, in Francia come in Italia e in tutto l’Occidente.
Femminismo e capitalismo hanno distrutto la famiglia patriarcale ( anche perché le donne sono entrate come “esercito di riserva” nel mercato del lavoro). I giovani maschi non ne vogliono più sapere di fare la guerra e di esercitare il potere, tanto è vero che anche la politica sta per “femminilizzarsi”. Solo i santuari della finanza – ultimo bastione di un potere “vero” – restano rigorosamente maschili.
Anche lo “scontro di civiltà”, in ultima analisi, per Zemmour si riduce alla rivendicazione e manifestazione aggressiva della virilità ancora contemplata dall’Islam contro la società svirilizzata e minacciosa dell’Occidente. Nello stesso Occidente è venuta dagli Usa di Bush una “vigorosa reazione maschilista”. Il presidente “con i suoi stivali da texano e i “neoconservatori” vengono da Marte, non da Venere”.
Zemmour si augura che questa reazione virile vinca anche in Europa (magari non per mano degli islamici…), ma ci crede poco. Non solo per la resistenza prevedibile da parte delle donne. Questa non sarebbe fortissima perché “le loro difficoltà di reggenti di una società senza re sono troppo grandi; la femminizzazione dell’uomo provoca immenso smarrimento, una frustrazione insopportabile per lei e una disgrazia intollerabile per i figli”. Ma assai più grande sarà la resistenza proprio da parte dell’uomo “ ben felice di essersi finalmente sbarazzato dal fardello che aveva tra le gambe. Anche se la sottomissione, l’umiliazione, la disgrazia sono il suo destino”.
Alla fine della lettura restano due impressioni: che la visione del femminismo come di una potente e vincente utopia livellatrice della differenza sessuale debba essere meditata. Così come l’immagine di uomini prigionieri di una sorta di abulica insignificanza e incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Oppure preda di sentimenti violenti che li fanno molto assomigliare a quel “perdente radicale” di cui parla Enzensberger (il quale non per caso scrive che questa figura sociale “di solito” è un maschio).
Il che non vuol dire che per ridarci un tono dobbiamo indossare gli stivali di Bush o il turbante di Osama.