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produrre e consumare tra pubblico e privato

Donne in pensione, dov’è la differenza

26 Aprile 2007
di Letizia Paolozzi

A quale donna pensano Linda Lanzillotta, attuale ministro degli Affari regionali e Emma Bonino, ministro per il Commercio internazionale e le politiche europee, quando propongono di innalzare l’età pensionabile delle lavoratrici (anche se tra le due una differenza c’è: per Lanzillotta l’innalzamento sarebbe su base volontaria, per Bonino obbligatorio)?
Alla proposta ha risposto picche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, intervenendo all’ultimo congresso Diesse, a Firenze. Ma questa potrebbe sembrare la solita reazione sindacale di fronte al “nuovo che avanza“. Anche a me la proposta non piace. Guardate, non ho nessuna tenerezza per il tempo delle “baby pensionate“. La “generosità“ previdenziale (Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera del 7 febbraio 2007) la vedo pure io e ammetto che andare in pensione a 55 anni rappresenta ormai un privilegio modesto (nell’Unione Europea è previsto solo da Austria, Grecia e Italia).
L’idea che guida Lanzillotta e Bonino (con l’ex ministro Treu e tanti altri) è all’incirca la seguente: se gli uomini vanno in pensione a 65 anni, voi donne che siete più longeve degli uomini, vivete più a lungo, non potete più nascondervi dietro la protezione delle leggi.
Naturalmente, le due ministre si rendono conto delle difficoltà che il mio sesso incontra nel percorso lavorativo, del divario negli stipendi, delle “discriminazioni di genere nei profili di carriera“ (Fiorella Kostoris sul “Riformista del 17 aprile).
Se io prendo una pensione di schifo, determinata dalle frenate nel mio percorso lavorativo, per via dei figli che ho messo al mondo, o perché mi sono separata oppure ho divorziato, è comprensibile che io voglia uscire dal mercato del lavoro appena possibile.
Visto che lo Stato non mi ha sostenuta quando ero giovane, attraverso politiche famigliari e servizi efficienti di supporto alla maternità, dal lavoro me ne vado prima. Conciliare due vite, quella dentro e quella fuori dalla casa, resta un obiettivo difficile da raggiungere.
In effetti, c’è un punto dolente che ostacola la proposta dell’innalzamento dell’età pensionabile: la cura dei figli e degli anziani. Affinché la bilancia delle responsabilità domestiche non penda più solo dalla parte delle donne, qualcuno propone incentivi mirati come riconoscimento del debito che lo Stato ha contratto nei confronti di chi svolge il lavoro di cura.
In Germania i cattolici conservatori pensano che il posto delle donne sia tra le mura domestiche. Così hanno alzato le barricate contro la ministra della Famiglia, Ursula von der Leyen (CDU) che vorrebbe creare da qui al 2013, 500.000 posti supplementari negli asili nido e nelle scuole materne per bambini di meno di tre anni. No, cara ministra, ha protestato la parte conservatrice della CDU-CSU, lei intende rimettere in questione il modello famigliare delle 3 K: Kinder, Kuche, Kirche (bambino, cucina e Chiesa). La cancelliere Angela Merkel ha dovuto rispondere seccamente:
“I padri e le madri devono essere liberi di scegliere in materia di educazione“.
Per tornare a noi, rispetto all’innalzamento dell’età pensionabile la flessibilità è indispensabile. Ogni donna dovrebbe poter scegliere valutando quali sono i suoi interessi in quella determinata fase della vita. Ma il cuore del problema sta nel lavoro di cura. E nel modo femminile, certo contraddittorio, di intenderlo.
Biologicamente, tutti i Dr. House della terza età sanno che l’andropausa non somiglia affatto alla menopausa. La stanchezza dell’uno non è il logoramento dell’altra giacché la vicenda del corpo di una donna di cinquantotto anni non somiglia a quella di un uomo nato nello stesso anno e magari nello stesso mese e giorno.
I due sessi, le loro storie culturali, sociali, li spingono a un differente impegno rispetto alle relazioni famigliari. Impegno che a me non appare solo negativo; è un carico che mi assumo anche con piacere. Mettere al mondo dei bambini; aiutarli a crescere tessendo legami tra grandi e piccoli; andare a trovare la mia vecchia mamma; occuparmi del mio papà: in cambio di un riconoscimento o di una sorta di monetizzazione voglio rinunciare a un campo tanto importante, come quello della relazionalità femminile?
Non sono convinta che sia giusto parificare la mia esperienza lavorativa con quella maschile. Dal momento che uomini e donne, rispetto al lavoro, nutrono desideri, aspettative, ambizioni e incontrano ostacoli molto diversi.
Qui sta la contraddizione. Per il sesso femminile dovrebbe certo finire l’equilibrismo da funambole che le costringe a destreggiarsi tra lavoro e famiglia. Senza però rinunciare a tenere insieme i due capi della catena: le donne, come al solito, vogliono il pane e anche le rose. Quello che meraviglia è che, nella loro ansia di metterci al passo con i paesi europei o di far quadrare i conti dello Stato, le due ministre non si accorgano della differenza tra uomini e donne.

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