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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Diario nigeriano: donne e sharia

9 Aprile 2007
di monica luongo

Mi ero preparata a incontrare un vecchio con la barba lunga e gli occhiali doppi. E invece l’imam di D., che anche sommo giudice della sharia è un bellissimo uomo di colore, età circa 40 anni con gli occhi celesti. Non mi stringe la mano, non si può, ma per correttezza non stringe nemmeno quella del mio collega. Per tutto il tempo prima di conoscerlo abbiamo scherzato ribattezzandolo “the cutter” – il tagliatore – perché qui è lui che decide se la mano di una o un fedifrago va tagliata oppure no.
Questa è la Nigeria del nord, la terra dove Samira e Amina hanno rischiato di essere lapidate per aver partorito un figlio fuori dal matrimonio. Forse avrebbero potuto morire lo stesso, anche senza l’intervento internazionale: di parto però, che è il fattore di decessi femminili più alto numericamente di quelli per Aids. Nel 1999 gli stati del Nord hanno adottato la sharia, applicata in maniera severa: le donne di fatto non esistono come soggetto pubblico, raramente sulle strade polverose o nei mercati dove la frutta marcisce in poche ore sotto il sole del sahel; mentre vanno a casa dei loro genitori, mentre raccolgono bacche nei campi.
Anche le principesse, le signore che fanno parte delle famiglie legate agli emiri locali (la Nigeria è uno stato federale, ogni stato è a sua volta diviso in emirati e gli emiri hanno il compito di proteggere la morale della popolazione), sono copertissime e si vedono solo affacciate dai balconi durante le giornate di festa, come quella del 2 aprile, sacro giorno della nascita del Profeta, celebrato con una parata di principi del deserto a cavallo.
Le donne sono libere di fare quello che vogliono nel paese della sharia, mi spiega paziente il giudice: possono uscire, decidere di studiare, candidarsi alle elezioni che si terranno tra quindici giorni; se non lo fanno è perché non vogliono. La sharia, mi spiega ancora con aria suadente la direttrice della radio di stato è un “way of life”, non solo una religione: le straniere come me sono libere di non portare il velo e lasciare i piedi scoperti, non sono fatti loro; le residenti no, devono adattarsi e sembrano farlo con tale gioia che nessuno le vede, scoppiano di felicità nelle loro case.
Anche le donne e gli uomini della minoranza cristiana sono considerati stranieri: per loro non ci sono spazi nei programmi televisivi e nemmeno dei programmi della desolata città di D., lurida da far spavento, dove strisciano poliomielitici delle generazioni che non hanno potuto beneficiare dei vaccini.
Lo scorso settembre sedici chiese sono state bruciate in tutto lo stato: pochi giovani sbandati, ci dice il giudice della corte federale – che ha poco da fare perché la maggior parte della popolazione ricorre al giudizio della sharia: nessun empito di fede, solo l’economicità dei costi -: Pochi drogati, ribatte il pastore anglicano, con la droga pagata dai politici più reazionari.
Solo arrivando qui capisci come sia possibile intraprendere un lungo viaggio, magari a piedi, per arrivare sulle coste libiche o marocchine e imbarcarsi sulle carrette del mare: la tua vita, il tuo corpo, non valgono niente, sono senza dignità nè per te nè per lo stato, allora tanto vale tentare, giocarsi l’esistenza. Anche la strada della prostituzione (ma solo le donne del sud, mi spiega il nostro assistente…) diventa un arcobaleno da avvicinare; la gente di qui deplora i concittadini immigrati, sono quelli che non si accontentano di quello che hanno, che vogliono diventare più ricchi e dunque sono avidi, e dunque peccatori.
Le donne – una su tre è bella come l’irascibile Naomi, se solo potesse mangiare un po’ meglio e fare meno figli – di Abuja e Lagos mettono su ogni genere di attività, ma lì si chiamano Ibo e Yoruba, cristiani libertari, non Hausa e Fulani, fedeli al Corano.
Mi rendo conto mentre scrivo che qui non riesco a tenere insieme i pezzi del mio relativismo: cerco di capire e osservare, ma la prima reazione è di sgomento, la seconda di rabbia.
Molte le persone impegnate nelle attività non governative: la responsabile di una associazione che ne raccoglie sotto di sé altre con progetti che riguardano l’educazione civica, l’empowerment delle donne, la lotta per i diritti all’interno della sharia, mi sorride mestamente quando spiega che la famiglia le ha proibito di candidarsi per il governo locale: non sono ancora pronta, mi dice quando le chiedo come l’ha presa.
Sono una stupida, ho fatto una domanda simile in presenza di uomini. Cercherò di rincontrarla da sola.

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