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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

8 Marzo: dov’è la differenza femminile?

18 Marzo 2007
di Letizia Paolozzi

E chi se lo immaginava, un 8 Marzo come scadenza di lotta? Eppure è successo a Teheran dove si celebra il processo a cinque attiviste accusate per aver tenuto, secondo il Tribunale rivoluzionario, nel giugno 2006 una riunione “illegale“. In realtà, le cinque attiviste intendevano protestare contro le discriminazioni che colpiscono le iraniane. Qualche esempio della legislazione in vigore:
1) la testimonianza femminile non ha lo stesso valore di quella maschile 2) è diffusa la pratica dei matrimoni combinati 3) il divorzio chiesto da una donna è molto più difficile da ottenere che per un maschio.
Le iraniane però non si considerano cittadine di serie B. Amano la libertà. E la mettono in scena.
Di qui la manifestazione femminil-femminista dell’8 marzo in sostegno delle attiviste processate. Il governo manda la polizia (femminile) per sciogliere l’assembramento: l’evento non deve essere ripreso dalle telecamere straniere. La Giornata internazionale della donna finisce con trentadue arresti. La notizia rimbalza nel mondo: merito del villaggio globale, presidente Ahmadinejad!
A Napoli, il Premio Nobel per la pace, l’iraniana Shirin Ebadi, firma un appello della Fondazione Mediterraneo con Michele Capasso e Caterina Arcidiacono. L’associazione Nessuno tocchi Caino dedica l’8 Marzo alle ribelli.
Certo, sono più combattive e meno stanche delle intervistate dalla televisione italiana. “Per me – ripetono – questo è un giorno come un altro“. Soddisfatte o deluse dalla propria condizione? Non l’abbiamo capito. Sono le istituzioni a offrirsi come paladine della Festa della donna. Il presidente della Repubblica distribuisce medaglie e spille alle signore-Grande Ufficiale, e pronuncia un simpatico discorso sul valore dei nonni.
A sera, rovesciamento della situazione quando il corteo delle lesbo-ragazze di “No Vat“ in marcia verso Piazza Navona se la prende con il Vaticano. Due giorni dopo, è la domanda di diritti per le unioni di fatto a riempire piazza Farnese. All’appuntamento non proprio rabbioso o scapestrato, forse perché bisogna sostenere il disegno del governo e i Dico, tante coppiette, spesso assai giovani, seguono la voce di Gianna Nannini. Accuserà L’Osservatore Romano: una “carnascialata“. Veramente, mi è sembrato che il Carnevale fosse lontano e la noia imposta dalle infinite testimonianze, vicinissima. Siamo tutti (e tutte) riformisti?
I giornali l’8 Marzo hanno dedicato molti pezzi ai femminicidi. In Africa la violenza colpisce una donna su tre. L’Unicef parla del perpetuarsi di discriminazioni e stupri di bambine. Il Monde nella sua lunga analisi, scrive che in Asia mancano all’appello 90 milioni di donne, cancellate dagli aborti selettivi e dagli infanticidi. Si calcola che in Cina 500.000 feti di bambine siano soppressi ogni anno.
Violenza di massa accanto a quella che in Europa, in Italia, si perpetua nel chiuso delle famiglie. Viene ricordato il caso di Hina, la ragazza pakistana uccisa dal padre, aiutato da alcuni parenti. Una cronista alza il ditino: spettava a voi, femministe, reagire. Scendere in piazza. Prendere posizione. Quasi che la violenza sessuale (e il dominio patriarcale) non fosse problema delle donne e degli uomini, dei giornalisti e delle giornaliste, dei capi di stato e degli spazzini.
Naturalmente, le femministe (la generazione del Sessantotto) hanno lavorato su questo sfregio inflitto alle donne. L’hanno fatto a partire dal rapporto tra i sessi. Pensando a un cambiamento in questo rapporto. Un cambiamento che non può prescindere dall’analisi del potere.
E dalle domande che seguono a ruota: esiste un modo maschile e uno femminile di gestirlo? Sono le femmine più dolci, più concrete, più pragmatiche dei maschi? Ancora: cosa accadrebbe se ci fossero più donne nei luoghi apicale delle istituzioni, partiti, università, banche, imprese?
Nell’Italia per le pari opportunità al 72esimo posto, queste domande possono apparire risibili. Ecco le solite femministe a sfogliare la margherita. Qualcuna propone di spaccare la mela perfettamente a metà: 50% delle donne e 50% degli uomini nelle istituzioni, nella pubblica amministrazione. Come in Svezia, nei cda delle imprese. Altre (la ministra ai giovani e allo sport, Giovanna Melandri e Franca Chiaromonte, Giovanna Grignaffini, Laura Pennacchi), la mela la taglierebbero in tre spicchi, per infilarci anche i giovani.
Proposte che dovrebbero applicare alla lettera la parità. Ma dove va a finire la differenza dell’essere donna? Questo, francamente, non ci porterebbe alcun vantaggio. Parlare lo stesso linguaggio degli uomini, imitarne i comportamenti e magari i misfatti, non muterebbe il rapporto tra autorità femminile e potere.
Racconta Lidia Menapace nel suo sito [email protected] di essere andata l’8 marzo a un’audizione della Commissione Difesa di donne militari. Le nuove arrivate si considerano “militari neutre. Donne classicamente emancipate che si adattano a un’istituzione maschile e non la cambiano“.
E cosa accade a Milano, città dove molte (dal “sindaco“, come vuole essere chiamata, Letizia Moratti alla presidente della Confindustria lombarda, Diana Bracco; dalla segretaria della Cgil lombarda, Susanna Camusso, alla presidente del tribunale, Livia Pomodoro; dalla capa dell’opposizione di centro-sinistra, Marilena Adami, alla direttora regionale dell’istruzione, la dottoressa Dominici) abitano ai vertici del potere?
Secondo Lia Cigarini e Luisa Muraro (in Via Dogana n. 80 marzo 2007) “la città non ha registrato nessun cambiamento“. Lo scontro sarebbe sempre quello, tra parità e differenza. Invece io penso che il primo cambiamento sia nella presenza di donne, di corpi femminili là dove si era abituate a vedere solo uomini. Trenta anni fa una immagine del genere sarebbe stata impensabile. Non considero questa immagine un’ovvietà. Simbolicamente non credo che lo sia.
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