“Ma c’è un altro aspetto negativo della legge Merlin che non ho visto indicare da alcuno. Essa cioè – e non ho nessuna intenzione di scherzare – ha troncato un filone di civiltà erotica, che, nell’ambito delle case chiuse, veniva trasmesso, con le parole e con l’esempio, di generazione in generazione, alimentando un’arte spesso raffinata, che temo sia ormai disperso per sempre. Cosicché la Merlin può essere paragonata a quell’ Erostrato che è leggenda abbia appiccato il fuoco alla grande biblioteca d’Alessandria, distruggendo un immenso capitale di cultura, mai più recuperato”.
Questo incredibile, ma sincero e “colto” giudizio nostalgico sulla fine delle “case chiuse” è di un importante intellettuale italiano: Dino Buzzati. Lo si può leggere in appendice al libro che alla legge Merlin, e al dibattito che suscitò nell’Italia uscita dalla guerra e rapidamente avviata al suo “boom” economico, ha dedicato recentemente Sandro Bellassai ( “La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni ‘50” Carocci 2006, pag 189, euro 16,50).
Per lo scrittore e il giornalista di cui si è da poco celebrato il centenario – e che sappiamo aver avuto un rapporto complesso e tormentato con l’altro sesso, tra l’altro raccontato nel romanzo “Un amore”, uscito nel ’63 e basato sulla vicenda autobiografica di un relazione lunga e tempestosa con una prostituta – la fine delle “case chiuse” equivale dunque alla distruzione di una essenziale istituzione culturale. Buzzati dice di voler dire la verità, e si aspetta reazioni scandalizzate. Il suo punto di vista è eticamente coerente, poiché in alternativa al “progetto Merlin”, propone di “tenere in alto onore” il mestiere delle prostitute, per la funzione sociale insostituibile che svolgono, tanto più che “un uomo che pratica, anche una sola volta, una puttana, si mette automaticamente, da un punto di vista morale, al suo livello, anzi un poco più in basso, se devo stare alla comune opinione, perché, pagando, la incoraggia a persistere sulla “strada del vizio””.
Il testo di Buzzati – tratto da una raccolta di pareri uscita nel ’65 a cura di Gian Carlo Fusco “Quando l’Italia tollerava”, e ristampata nel ’95 da Neri Pozza – è significativo di una cultura maschile che molto raramente, negli anni un cui si discusse della legge Merlin, si manifestò in modo così aperto. Nel libro di Bellassai è seguito da un altro testo molto significativo e toccante. E’ la lettera indirizzata alla senatrice Merlin da una prostituta che la incoraggia a continuare a battersi per l’abolizione delle “case di tolleranza” e racconta la sua storia, che sembra uscita da un romanzo di Zola o di Hugo.
Figlia maggiore di un tipografo socialista idealista e colto, subito orfana della madre, e poi del padre che muore sognando la fine della dittatura fascista e l’avvento di un mondo di liberi e uguali, con in mano le fotografie delle figlie e di Matteotti, questa donna sarà stuprata a 16 anni da un avvocato molto “per bene” che avrebbe dovuto garantirle un impiego, tradita dalle false promesse e dai ricatti di lui, e poi avviata alla “carriera” di prostituta in “case” di alto livello, per poter mantenere agli studi la sorella minore, tenuta rigorosamente all’oscuro di quel suo vero “lavoro”.
In questa lettera quel tempio alessandrino dell’erotismo evocato da Buzzati assume le tinte squallide di un luogo di violenza, ipocrisia, sopraffazione quotidiana, dal quale l’autrice della lettera sogna di potersi un giorno emancipare, nella continua evocazione degli ideali socialisti del padre e della stessa Merlin.
Ho cominciato dalla fine del libro di Benassai, perchè questa essenziale antologia restituisce immediatamente molti dei contenuti su cui l’autore si sofferma lungo cinque densi capitoli, ricchi di rimandi alle discussioni parlamentari e, ancor più, alla vasta produzione di articoli, inchieste giornalistiche e sociologiche, e diversi film, che nel decennio ’50 parlano di un mutamento nelle relazioni tra i sessi che già annuncia una rivoluzione femminile avvertita da molti come il rischio di una imminente catastrofe.
La senatrice socialista Lina Merlin presenta il suo progetto per abolire le “case chiuse” il 6 agosto del 1948. La legge verrà approvata dieci anni dopo il 20 settembre 1958 con una larga maggioranza: 385 voti a favore, 115 contro. Il voto segreto non permette ricostruzioni al dettaglio, ma il dato rilevante è il consenso trasversale tra la sinistra socialista e comunista e il mondo cattolico rappresentato da quasi tutta la Dc. E tuttavia – come argomenta Benassai – all’interno del fronte abolizionista si possono ritrovare punti di vista e culture distintissimi: dal più severo moralismo cattolico – a cui da voce in Parlamento Mario Scelba in persona – a quelle istanze libertarie e femministe che si affacciano in una sinistra comunque ancora pervasa da un moralismo si segno diverso, ma non meno opprimente.
Il dibattito sulla legge, tra i politici, i medici, sui rotocalchi, è usato da Benassai come la cartina di tornasole per testare lo stato dell’autocoscienza maschile in un passaggio storico fondamentale per la costruzione della nuova Italia postfascista. Una autocoscienza che ne emerge assai debole, caratterizzata dalla sostanziale rimozione del problema del desiderio degli uomini quale premessa del fenomeno prostituzione, e da una nascente paura di fronte a un protagonismo femminile che comincia a emergere prepotentemente nelle cronache della “società dei consumi” che si afferma anche in Italia.
Negli interventi di tanti parlamentari e soprattutto medici (questi ultimi per lo più contrari alla legge per motivi “sanitari”) torna e ritorna l’altalena di una immagine della donna che oscilla dall’”angelo del focolare”, indispensabile al buon ordine sociale, alla mantide tentatrice, alla virago femminista: dietro a questi stereotipi si intravvedono le donne reali che vogliono lavorare fuori casa, che non sono più tanto disposte a servire in silenzio mariti “sultani”, che osano fumare in pubblico e guidare l’automobile, che un’altra legge del tempo comincia a ammettere nella magistratura. Uno scenario inquietante per molti uomini e per la cultura tradizionale: anche il Belpaese insegue modelli “made in Usa”, dove per molti il “matriarcato” è già una realtà trionfante.
Ma c’è anche qualche raro maschio che cerca di guardare in faccia la realtà. Per esempio Guido Piovene, che intervenendo a un convegno nel 1961, invita il suo uditorio maschile a prendere atto che la supremazia del “capofamiglia” è finita. E che questo può essere un bene per gli stessi uomini: “…come nella lotta sociale, di cui questo è un aspetto, l’affrancarsi dei dominati porta seco anche l’affrancarsi dei dominatori, essendo triste per entrambi sostenere una parte che la storia non consente più”. Una osservazione che non ha perso nulla della sua attualità.