Pubblicato sul manifesto il 3 maggio 2016 –
Mi ha fatto una certa impressione lo spot, prodotto dalla Rai, sul prossimo 99° Giro d’Italia. Non sono uno sportivo, né come praticante, né come tifoso. Ma una bella partita di calcio, una tappa del Giro, o una competizione di atletica leggera, a volte mi divertono e mi appassionano. Potrei essere l’”utente” ideale di un messaggio che immagino rivolto a chi non è già super motivato e informato dei fatti?
Con me ha fatto completa cilecca. E’ vero che mi ha incuriosito: tra una fiction e l’altra in tv sento una voce un po’ suadente e un po’ stentorea (mi sembra quella del doppiatore di Kevin Spacey, il presidente Underwood) pronunciare una stramba frase: “Vicino a loro alla partenza non vedrete mai bellissime donne con l’ombrello, perché a loro il sole piace prenderlo in faccia…”. Ma chi saranno mai? E poverini se il loro destino è essere accompagnati da bruttine scapestrate. Battutaccia un po’ machista, direte voi. I protagonisti dello spot però sono inseriti a forza in uno stereotipo tutto macho. Si beccano la pioggia “perché il loro sudore bagna molto di più”, e “non indossano tute integrali per proteggersi perché per loro le ferite sono medaglie”. Le immagini indugiano su rovinose cadute e su vistose escoriazioni esibite continuando la gara. Un poco raccapricciante, ma evidentemente è il destino di coloro che “sono i grandi eroi del ciclismo, il vero sport su due ruote”. Gli sportivi motociclisti si saranno un po’ risentiti?
Ora non c’è dubbio che quasi in ogni sport ci sia l’elemento della competizione, del rischio, della dura fatica, ma è giusto ridurre retoricamente il Giro a questo messaggio di tipo vagamente sadomaso e bellicista?
Forse è una questione di qualità del linguaggio. Don De Lillo ha dedicato uno dei suoi primi romanzi – End Zone – alla figura di un giovane soldato che si batte sui campi di football – e il calcio americano è uno sport particolarmente violento – mentre studia le strategie della guerra nucleare. Esiste un parallelo – si chiede a un certo punto esplicitamente – tra il football e la guerra? Un altro protagonista del libro risponde di no: “Io rifiuto il parallelismo tra football e guerra. La guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l’originale”.
Già, abbiamo l’originale. Lì per lì mi ero consolato pensando che gli eccessi eroici dello spot esprimessero una specie di nostalgia maschile per il tramonto di una diffusa passione per la guerra. Ancora pochi anni fa uno storico americano, James J. Sheehan, poteva scrivere un libro intitolato L’età post-eroica, pensando soprattutto alla lunga pace vissuta dall’Europa contemporanea dopo il ‘45. Purtroppo si sono avverati i timori che le ultime pagine di quel libro, pubblicato nel 2008, indicavano: il sogno illuminista di una pace perpetua dalle nostre parti avrebbe dovuto fare i conti con sfide e insidie che accerchiavano la frontiera europea lungo la quale “ricchezza e povertà, diritto e violenza, pace e guerra si incontrano continuamente”.
E così è stato. La costruzione della pace in un continente solo si sta dimostrando un’utopia impossibile. La violenza – che peraltro spesso gli europei esercitano nel resto del mondo – contamina anche noi: si ripete, con sgomento ma anche col ritorno di quella specie di eccitazione compiaciuta che speravamo di avere archiviato, l’ affermazione “siamo in guerra!”
(Ho visto nei giorni successivi alla pubblicazione di questo articolo che lo spot ha suscitato polemiche soprattutto per il confronto negativo con il motociclismo, meno, mi pare, per il tono “eroico” del messaggio…)