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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Parità, parità! Ma non in mio nome

11 Marzo 2014
di Letizia Paolozzi

Gentili signore e signorine di bianco vestite, leggo che avete sottoscritto trasversalmente un appello ai vostri leader (tutti maschi, naturalmente) affinché sia stabilita “una alternanza di genere nella composizione delle liste” e l’idea di “dividere a metà i posti di capolista”. Auguro a voi novanta (e alle altre) parlamentari tutto il bene possibile ma, per favore, questa annosissima vicenda delle “quote rosa” non agitatela in nome del sesso femminile. Comunque “not in my name”.
Per me il mondo non è una mela divisa a metà: esattamente tra 50 % di uomini e 50 % di donne. Piallare la differenza; cancellare l’alterità dell’essere nate donne e nati uomini, sul serio, volete questo? Sul serio siete convinte “che non sia possibile varare una nuova legge senza prevedere regole cogenti per promuovere la presenza femminile nelle istituzioni e per dare piena attuazione all’articolo 3 e all’articolo 51 della Costituzione”?
Attenzione, perché qui casca l’asino, che la Costituzione più bella del mondo non si sogna proprio di imporre la presenza femminile. Sarebbe stato meglio (e sarebbe meglio provare a rimediare al Senato, ora che con motivazioni maschili non proprio nobili sono stati respinti i vostri emendamenti) puntare su una soluzione più saggia per cui nessun sesso possa essere rappresentato in misura superiore al 60% o inferiore al 40%.
D’altronde, non vi preoccupa l’umiliazione di una norma che inchioda l’altra metà del cielo alla condizione di specie protetta? Dubito che un sesso, il mio, vada garantito e protetto attraverso “regole cogenti”. Punterei, piuttosto, a un lavoro (e un conflitto) sulle mentalità capace di modificare i rapporti (sessuali, economici, sociali) di potere.
Non crederete mica che la legge costruisca la realtà e dunque sia di per sé in grado di annullare la subordinazione di un sesso all’altro e la gerarchizzazione del maschile e del femminile?
La parità non si impone per legge. Eppure voi supponete di fare il bene mio e delle mie sorelle di sesso quando scrivete che “la 
responsabilità della politica sta ora nel trovare una soluzione ad una questione di civiltà e di qualità della democrazia che troverebbe il favore non solo delle donne, ma di tutti i cittadini che hanno fiducia nelle nostre istituzioni e nella possibilità di renderle migliori”.
I giornali hanno esaltato il vostro appello titolando: La rivolta delle donne. Ma di quale rivolta si tratterà se, pudicamente, avete taciuto sull’Italicum biforcuto e glissato sulle sue irragionevolezze costituzionali?
Naturalmente il senso comune è stufo di vedere platee e presidenze e scranni riempiti da uomini in abito grigio scuro. Quell’ordine simbolico (patriarcale) è tramontato. Vi ricordo di aver lavorato anch’io, assieme a molte altre (è questo il femminismo) affinché si affermasse un ordine differente.
Renzi ha composto un governo per metà di uomini e per metà di donne (ma è successo pure nel comune di Milano con Pisapia, a Genova con Doria). Mentre l’attuale premier ha spiegato la sua “mission” – rottamare il vecchio gruppo dirigente del Pd che ha sbagliato – le donne in questa articolazione a due, o “democrazia paritaria” imposta dall’alto, non mi pare abbiano finora espresso il desiderio, con un guizzo di autonomia, di sottrarsi alla classica cooptazione. Per questo, gentili parlamentari di bianco vestite, non consideratemi complice del patriarcato e traditrice della causa femminile se non sono al vostro fianco per la battaglia sulla parità.

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