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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Più rabbia e violenza, meno autorità (maschile)

31 Dicembre 2010
di Letizia Paolozzi

Ho seguito la discussione dopo i fatti accaduti il 14 dicembre a Roma, quando gli archi che solitamente dividono un luogo inerte di puro attraversamento da una piazza meravigliosa, hanno perso la loro funzione.
Piazzale Flaminio non più separato da piazza del Popolo. Fumo e scontri dai due lati. All’incuria per le cose pubbliche – fenomeno al quale siamo anche troppo abituati – si sono aggiunte sedie rovesciate, panchine divelte, cartelli stradali sradicati, bancomat fuori uso. Di più, qualche macchina e il mezzo dei finanzieri bruciato a via del Babuino.
Gesti di ragazzi arrabbiati perché non hanno futuro? Una “rabbia” che gli amici e amiche del testo pubblicato su DeA (Rabbia, conflitto, radicalità e violenza non sono sinonimi) vorrebbero si trasformasse in politica.
Ma per trasformare la rabbia in politica bisogna dirsi la verità. La vicenda del quindicenne con la testa fracassata dal casco di un altro ragazzo mi fa pensare che tra piazza del Popolo e piazzale Flaminio i manifestanti non avevano la minima idea di come si costruiscono relazioni con i propri simili. E di questo siamo tutti un po’ responsabili. Loro non sanno costruire mediazioni intergenerazionali, noi non sappiamo costruire relazioni con loro: tra adulti e giovani.
Quanto alla violenza, possiede un potere stupidamente seduttivo. Soprattutto in una così forte crisi di autorità dove padri, maestri, preti, dirigenti politici hanno perso la possibilità di farsi ascoltare.
“Sappiamo, o dovremmo sapere, che ogni diminuzione di potere costituisce un aperto invito alla violenza, non fosse altro perché coloro che detengono il potere e sentono che sta loro sfuggendo di mano, siano essi i governanti oppure i governati, hanno sempre trovato difficile resistere alla tentazione di sostituire a esso la violenza” (Hannah Arendt “Sulla violenza”).
Una volta la violenza si arrampicava sulle spiegazioni ideologiche: crisi del potere in relazione al consenso, lotta di liberazione dei popoli, lotta di classe. Adesso, si esprime direttamente con la trasgressione (nemmeno tanto liberatoria), con il vandalismo. Dietro “la rabbia” ci sono anche questi cattivi sentimenti: “una merce che si chiama studente” (dal libro di Franco Arminio “Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia” editori Laterza).
“In un mondo migliore” è il film di Susanne Bier. Interessante se pure pesantemente pedagogico, racconta un mondo dove è diffuso il sistema della prevaricazione; un mondo nel quale la violenza appare razionale, oltre che a portata di mano. C’è la rabbia di due ragazzi alle prese con il bullismo e l’orrore di ciò che il padre di uno dei due ragazzi vede quotidianamente in Africa. Ma c’è anche la sua sordità, l’incapacità di ascoltare il figlio. Sono situazioni diverse ma non così lontane come possono sembrarci a un primo sguardo.
Invece di tante parole al vento sul Sessantotto e la sua eredità, perché in Italia non viene in mente a nessuno di discutere, seriamente, su questo difficile rapporto padri-figli? O forse pensiamo che bastino i buoni gesti del presidente Napolitano?

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