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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Gpa, più tempo per far parlare l’esperienza

3 Maggio 2023
di Rinalda Carati

Quello che vedo, anche da parte di donne per le quali provo quel misto di affetto, curiosità, interesse razionale che appartiene all’ambito della relazione, è un crescente bisogno di schieramento (ma schierarsi non coincide con l’avere e il sostenere, anche assertivamente, una posizione) sui così detti “temi divisivi” tra femministe. Che non siamo d’accordo tra noi che ci diciamo femministe, non è una notizia: non lo siamo mai state. Ma perché gli schieramenti prendono il sopravvento su altre pratiche? Perché tanta certezza nel dire “non esiste un solo femminismo”? Se il femminismo è il luogo dove ognuna parla per sé, a partire da sé, e si assume la responsabilità di quello che sostiene, che bisogno c’è di “moltiplicarlo”? Allora forse la questione non è quella dei temi divisivi, i quali soltanto “coprono” altro … Mi domando cosa (e perché) stia entrando sotto “l’ombrello” della parola femminismo, e la spinga in quella particolare direzione.
Comunque sia, sono abbastanza convinta che molte, come me, non possono e non vogliono schierarsi. E credo che sulla Gpa, ma non solo, parli in ognuna di noi (io per prima) una sorta di pre-giudizio, che rende difficile intendersi.

In questi ultimi giorni/settimane, mesi, anni, ho cercato di capirci qualcosa.
Non mi sento in accordo nè con chi chiede il divieto universale nè con chi chiede una nuova regolamentazione per l’Italia; sono dunque innanzi tutto in contraddizione con me stessa. Quanto al concetto Italia devo però fare una premessa, che mi è indispensabile per situare quello su cui provo a riflettere. Per molto tempo ho pensato all’Italia come al mio bellissimo paese, con tanti difetti ma con una buona Costituzione, con una speranza. Non ci riesco più: la amo ancora, l’Italia, ma non sento appartenenza. La crisi delle istituzioni è arrivata a un punto tale per cui è stato possibile far entrare in guerra questo paese senza nemmeno dirlo ai cittadini, alle cittadine. Si fatica a rispettare persino il minimo delle regole democratiche, e questo accade almeno dai tempi della pandemia, una emergenza annunciata e prevista. Perché, invece di usare principi di precauzione e di cautela, si è preferito terrorizzarci? Come diceva un bel vecchio libro di fantascienza, la paura uccide la mente, è la piccola morte. In un certo senso – poiché blocca l’elaborazione dei lutti – peggiore della morte vera.
E dunque, adesso, il mio paese non è un luogo geografico politico-simbolico, con i suoi confini: sono le donne e i ragazzi iraniani che vanno in piazza per “Donna vita libertà”. Sono le contadine indiane che cercano di salvare la loro terra. Sono i disertori russi e ucraini. Sono tutti coloro che cercano di fuggire dalle guerre, tutti coloro la cui morte sventuratamente trasforma il Mediterraneo in un mostruoso cimitero. Siamo nel bel mezzo di un cambiamento enorme (così grande che è persino difficile avvertirlo: rischia di sopraffare la nostra capacità di percepirlo e starne al passo). È cambiata, sta cambiando la vita delle donne. Ma cambiano il lavoro, la scienza, le tecnologie e le biotecnologie, cambia la memoria e lo strutturarsi delle facoltà cognitive. Dovrei continuare a lungo, e soprattutto meglio, ma mi fermo e torno alla Gpa: che va pensata in questo mondo e non in quello che non esiste più.

Il proibizionismo non ha mai funzionato su nulla. Come dovrebbe funzionare in questa spinosa questione? E un proibizionismo sostenuto da forze politiche che pensano Dio (ma non certo il Dio del quale tanto mi hanno insegnato Luisa Muraro e Rosetta Stella) Patria e Famiglia, dove va a parare se non a voler normare/punire il possibile e anche l’impossibile? E poi, temo che almeno in alcune parti del mondo, soprattutto quelle attualmente più svantaggiate (delle quali a breve faremo parte?) si tradurrebbe in mercato nero, buttando le donne interessate o necessitate in bocca alla clandestinità e alla criminalità organizzata. Sento dire: si tratterebbe di una importante presa di posizione simbolica. Ma no, si tratterebbe di una legge. Le leggi, nella migliore delle ipotesi, possono interpretare un già avvenuto sentire comune, o diffuso, togliendone molte sfumature soggettive di senso ma insomma raccogliendo più o meno adeguatamente qualcosa che già c’è. Altrimenti sono forme di potere. Interpretano rapporti di forza esistenti. Ma per quanto mi riguarda, la difficoltà è più ampia: non posso e non voglio far parte di chi dice a una donna cosa può o non può fare. Mi pare che di questo procedimento ce ne sia già stato ben più che a sufficienza. Aggiungo però. C’è anche questo paradossale fenomeno in atto. Più il potere istituzionale si indebolisce e perde senso, più nel discorso corrente gli viene assegnata una funzione significativa se non essenziale per quanto riguarda la vita degli esseri umani. Ma non è così. E di questo (nella versione sfiduciata e depressiva) parlano gli altissimi livelli di astensionismo elettorale. Gli stati, i governi, i parlamenti etc etc etc possono ben poco sulla qualità della nostra vita. (Possono di più sulla morte, ma affrontare questo punto mi porterebbe troppo lontano). Viene loro riconosciuta una importanza decisiva che assolutamente non hanno. La speranza di una vita dignitosa, dotata di senso, magari che persino possa conoscere qualche momento di felicità non passa di lì. Passa dalla fatica di costruire relazioni e di poter condividere almeno qualcosa, con altre, con altri.

Sul numero 49 della rivista Via Dogana (anno 2000) apparve un articolo dal titolo Viva l’esca dei sentimenti. Trattava di quello che è comunemente considerato il primo caso di Gpa pubblicamente discusso in Italia, dell’amicizia tra due donne, una delle quali voleva partorire una creatura per l’altra, che non poteva avere figli. La giudice che si occupò di quel caso in mancanza di legislazione ritenne di dover “valutare e cercare di risolvere i problemi collegati allo svolgimento di una storia umana, ognuna in quanto tale diversa perché calata in una realtà di affetti, emozioni, sentimenti che appartengono a ciascun individuo e sono soltanto suoi”. La stessa giudice incoraggiò la presenza della “madrina” (la donatrice) accanto alla “madre”.
“Farsi interrogare dall’evento, dal desiderio femminile quando esso è puro e inquietante”, suggerisce l’autrice dell’articolo, che è Rosetta Stella. E in un certo senso segnala il caso come una faccenda di donne, una storia di forza delle donne, tutte donne…. Madre madrina giudice psicologa… e l’umiltà di un padre che accetta di venire secondo… o, forse più esattamente, terzo…
Rosetta quel testo decise di ripubblicarlo in un suo libro nel 2005. Questo mi fa pensare che fosse ancora d’accordo con se stessa, cosa che non accadeva sempre, a causa della velocità del suo pensiero, del guizzare potente delle sue intuizioni. Sono profondamente d’accordo sulla necessità di farsi interrogare dal desiderio altrui. Ma lasciarsi interrogare non è ascoltare e accettare: è cercare di intendere cosa in noi si produce incontrandolo, e provare a rilanciarlo, a “lavorarlo”, usando tutta la attenzione e la cura necessarie, riportandolo a noi stesse, e da noi stesse all’altra. E poi farlo di nuovo, ancora e ancora e ancora.

Cosa è cambiato da allora a oggi? Dicevamo: fra me e il mondo, metto una donna. Allora era così. Oggi invece il mondo è costantemente, ininterrottamente tra una donna e l’altra …. Per il circolare di libertà femminile, certamente…. Ma anche per il fatto che ancora, come ha scritto Luisa Muraro, “molte donne vagano tra le rovine del patriarcato”, ma in un mondo nel quale non siamo più né estranee né innocenti, se mai lo siamo state. E dove il “capitalismo” è sempre più abile a intercettare ogni cosa che possa portargli vantaggio.

Lo ha detto bene Giorgia Basch.
“Quante volte al giorno sentiamo di dover far fruttare la nostra libertà di metterci al centro, di capitalizzare sulle nostre capacità e virtù, in nome di una retribuzione emotiva prima che economica? Ed è davvero quella, la libertà? Da donna mi interrogo spesso su quali siano le mie vere volontà, se le mie scelte non siano orchestrate dai fili sottili del neoliberismo e da un patriarcato latente, e come me lo stanno facendo molte altre, insieme, nel tentativo di scindere libertà controllata e volontà profonda di autodeterminazione. La strada per la consapevolezza è un cammino comune, che può farci trovare delle risposte solo nell’ascolto delle richieste che nascono dalla contraddizione tra la società corrente e i bisogni reali.”
(Tuttavia devo aggiungere che sento diffidenza nei confronti della parola autodeterminazione: temo sia qualcosa che non esiste se non nelle fantasie di una sinistra che non è stata all’altezza delle sue promesse. Siamo esseri dipendenti, sempre. È meglio saperlo, mi pare, semplicemente perché sapendolo possiamo forse imparare di più su noi stesse e sugli altri).

Il divieto vigente in Italia non comporta, a quanto comprendo, e a quanto mi spiega nei suoi scritti Silvia Niccolai, la punibilità di donne che agiscono sulla base dei loro affetti e delle loro relazioni. Cioè già esiste una netta separazione tra la così detta Gpa commerciale e la così detta Gpa gratuita. Non credo si potrebbe fare una legge migliore di questa che offre il vantaggio, per me desiderabile oggi, di lasciare un margine aperto al desiderio femminile pur producendo un rallentamento del mercato di corpi riproduttivi femminili. E di bambini. Ho letto la proposta di legge della Associazione Luca Coscioni, che alcune amiche considerano una buona base di partenza. Per me è irricevibile, per vari motivi. Ne segnalo, qui, uno solo: la donna “portatrice” non dovrebbe mai utilizzare materiale genetico proprio. Fine ultimo di tale norma – dicono – è proprio quello di “evitare coinvolgimenti tra il minore e la gestante”. Dunque il “coinvolgimento” dipenderebbe dalla genetica? Dunque non vi è nulla che riguardi il nascituro, dei cui diritti tanto ci interessiamo, nel nascere in un “corpo muto” e non in un corpomente “culla di parole” secondo la bella espressione di Chiara Zamboni? Corpo muto ha scritto Marisa Nicchi, e nelle sue parole (basate anche sul lavoro di Maria Luisa Boccia e di Grazia Zuffa) ho trovato ragioni e sentimenti che non mi hanno ferita, che non hanno fatto scattare in me irrigidimento e appunto pre-giudizio. Perché lì ho sentito il desiderio di farla parlare, questa famosa esperienza femminile. Ma attenzione. Yasmine Ergas, per fare un esempio, sul numero 127/128 del 2020 di Dwf racconta del tentativo – fallito – di salvare la libertà di scelta della gestante fino oltre il parto in una legge americana. Ma il “contratto” quando c’è, è più forte … E il desiderio femminile, appunto? C’è il libro di Maddalena Vianello, bello e inquietante, che prova a interrogarlo per quanto riguarda la Pma (Procreazione medicalmente assistita). E ne esce un quadro contraddittorio, fatto di divergenze.

Quindi per me vorrei tempo … tempo a disposizione per lasciarsi interrogare appunto, per dissentire, o forse, chissà, per convincere. Tempo prezioso per finire di smontare le invenzioni e le astrazioni e far parlare l’esperienza. Perché si quieti la follia identitaria che separa donne madri da donne non madri. Tempo per riparare i danni che purtroppo ci portiamo ancora dentro. Tempo per sciogliere il nodo tra la sensazione di potenza della maternità e il desiderio di potere che ci sta annidato dentro. Tempo per elaborare il fatto che la pura casualità dell’essere nate femmine ci fa essere depositarie di scelte mai semplici. (Scelte, vorrei dire a Franca Chiaromonte e a Fulvia Bandoli, non sempre libertà. L’aborto, come non sta nel registro dei diritti, così non sta nel registro della libertà).
Tempo, perché ancora capita di sentirsi dire, come è accaduto a una mia giovane amica, che – se scegli di non allattare per 18 ore al giorno a tempo indeterminato, cosa che pare adesso sia molto di moda – sei difettosa di istinto materno (chissà cosa sarà). Le strade segnate non esistono più, ma abbonda ancora chi vuole spiegarci come si fa, e che si fa in un’unica maniera, buona per tutte. Ma non è così: la stessa giovane amica mi ha detto: esiste una me stessa prima del parto, e un’altra me stessa dopo. Ho pensato: ha ragione, è così che accade, è così che è accaduto anche a me. E diversamente per la nascita di mio figlio e per quella di mia figlia, con la quale sono in debito perché è grazie alla generosità nel condividere una sua amicizia se posso raccontare questa storia: ma questo sentire/sapere non sembra appartenere a tutte. Nella mia esperienza di madre la presenza di donne non madri, mia sorella e le “zie” non di sangue dei miei figli, è stata quanto di più prezioso ho potuto avere. Hanno guidato i miei passi e orientato il mio sentire. Rispetto ai miei molti errori, loro hanno trovato aggiustamenti e modifiche percorribili per me, non per “le donne”. E infatti dove e come ci si orizzonta, se non con le altre, e nella fiducia e conflitto con le altre? Eppure, per una parte di donne che pure si dicono femministe la maternità è stata una esperienza da riportare nel privato (che non coincide con il personale) e accuratamente tenuta al riparo dallo scambio: di cosa parla questo se non di una normatività pervasiva che contrasta col pensare la propria esperienza? E mi chiedo. Quale è la legge che potrebbe favorire tutto questo lavoro che va fatto? E che è e sarà faticoso e difficile? Perché la Gpa dovrebbe essere pensata separatamente da tutto questo e da molto altro?

In un certo senso invidio le donne che hanno più certezze di me. Per esempio, le donne convinte che la relazione materna (della quale a me interessa moltissimo e anche di più) si possa salvare con un divieto universale. O, sul fronte opposto, quelle convinte che la Gpa “commerciale” non possa essere messa nella categoria dei crimini contro l’umanità (be’, tecnicamente è vero… si può trattare “solo ” di un crimine contro le donne e i bambini). Però. La situazione attuale è che nemmeno c’è sentire comune sul fatto che finora, e dunque per un tempo che coincide con quello dell’esistenza della specie, le donne (quel determinato corpomente che chiamiamo così) hanno messo al mondo tutti quanti: forse non è un merito, sicuramente non è una colpa e chissà perché poi è andata in questo modo. Il “fatto” è sotto gli occhi di tutti, ma non circola facilmente nel discorso. Viene confuso con la “differenza sessuale” che è tutt’altra cosa, su tutt’altro piano. Il problema sta in quella famosa faccenda di come natura e cultura si mescolano inestricabilmente negli esseri umani? Mi pare che sicuramente non ci serva la fretta di mettere le cose “in ordine”. E a partire da lì poi capitano cose stravaganti assai: ad esempio, dire che il corpomente femminile riproduttivo ha messo al mondo tutte e tutti sarebbe essenzialista e biologista. Invece, volere figli geneticamente propri attraverso le procedure da pochi anni individuate dalla scienza non avrebbe proprio nulla di essenzialista e biologista. Perché mai? Mistero.

Comunque. Ho detto una bugia. Non è “vero davvero” che invidio chi ha più certezze. Più banalmente penso… se avessi certezze forse sentirei meno preoccupazione. Ma quello che voglio per me è sempre la stessa cosa. Non credere di essere in grado di prevedere le conseguenze delle mie azioni, eppure restare capace di agire. Non credere che il mondo si possa mettere a posto attraverso i rapporti di forza e il potere, e dunque non credere che il potere – per quanto grande e pervasivo sia – possa impadronirsi di me completamente. Volere molte mediazioni e, preferibilmente, nessun compromesso. “Essere all’altezza di un universo senza risposte”. Non ci riuscirò eh, non è che mi faccio illusioni. Ma almeno ci avrò provato. Ostinatamente e sempre cercando di non venire meno a quelle grandi pretese sulla libertà mia e delle altre, che hanno accompagnato la maggior parte della mia vita adulta. Perché è possibile anzi è necessario stare al mondo senza opprimere e senza essere oppressi, senza farsi la guerra e senza distruggere la “natura”, lavorare il giusto e avere per se tutto il tempo che serve a imparare almeno qualcosa su chi mai siamo. Insomma vivere.

Ps.
Ho scelto di non dire nulla sulla questione delle adozioni, perché penso che quello che ci divide non è lì. Credo che tutte vogliamo il meglio possibile per le creature piccole. Le quali però – bisogna saperlo – proprio per l’essere piccole e comunque siano nate – sono esposte inevitabilmente alle nostre miserie e inadeguatezze. Ma una mediazione si potrebbe trovare. Il mio migliore amico – con il quale moltissimo discuto di ciò che accade al mondo – mi ha fatto osservare che dovrebbe essere sempre conoscibile la (si fa per dire) “verità” della propria nascita, comprendendo tutti gli e le adulte umane coinvolte. Non sono affatto certa che possa essere una strada, ma apprezzo il fatto che un uomo si ponga la questione (dopo tanto tempo di maschile leggerezza sullo spargimento di seme senza pensiero per le conseguenze) della sua parte in quel che accade.

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