Roberto Roscani ha scritto che per i giornalisti dell’Unità della nostra generazione Bruno Ugolini era un po’ un “fratello maggiore”, forse uno zio, “con la saggezza ma senza la iattanza dei padri”. Massimo Cavallini lo ha ricordato come il grande amico, un “ragazzino che voleva cambiare il mondo”.
Roberto, Massimo, Bruno, insieme a non molti altri e altre erano un po’ “la sinistra” del giornale. Colti, ironici, simpaticamente rassegnati a essere sempre in minoranza, ma non per questo a rinunciare a dire la propria; pronti anche – lo dico di loro come di me stesso – a “riallinearsi” nei frangenti in cui anche all’Unità, nonostante fosse un reparto “scelto” al lato del partito, dove si poteva litigare in autonomia, suonava la campana della “linea” da seguire. Nel nome di un “interesse generale” che forse non si aveva voglia di verificare con intenti più radicali.
Bruno è stato certamente un giornalista bravissimo. Chi volesse capire che cosa è stato il movimento operaio italiano dagli anni ’60 – quando cominciò a lavorare nel giornale del Pci – in poi, non potrebbe fare a meno di leggere gli articoli, le inchieste, le interviste firmate da Ugolini.
Bruno formava una coppia formidabile con l’altro Bruno, Trentin: non era solo il cronista-interprete indiscutibile, ma con lui aveva un rapporto di amicizia, di scambio, di ricerca, dal quale sono venuti alcuni libri importanti. Ne cito solo due: “Il sindacato dei consigli” (Editori Riuniti), scritto retrospettivamente all’inizio degli anni 80 – gli anni che avrebbero visto la sconfitta operaia alla Fiat – e “Il coraggio dell’utopia. La sinistra e il sindacato dopo il taylorismo” (Rizzoli): qui siamo a metà anni ’90, il lavoro conosce altre trasformazioni, e i tormenti e gli interrogativi di Trentin e del suo interprete, sostanzialmente inascoltati, parlano dell’incapacità della sinistra italiana (direi in tutte le sue articolazioni oltre che nei grandi corpi del Pci e della Cgil) di comprenderle e di reagire in modo efficace.
Ci fu lo “scoop” nell’agosto del 1992. Trentin il 31 luglio aveva firmato l’accordo sul costo del lavoro con Amato – un accordo molto brutto – e si era dimesso da segretario della Cgil. Scomparendo poi dalla scena pubblica. Fu una lunga, lunghissima intervista all’Unità concessa a Ugolini il 6 agosto a far conoscere il pensiero del segretario dimissionario su tutta quella drammatica fase politica e sindacale.
Voglio dire qualcosa anche della mia amicizia per Bruno, pur se condivisa quasi esclusivamente nelle stanze del giornale, o seguendo comitati centrali del partito e convegni sindacali. Furono anche le sue affettuose insistenze a convincermi ad accettare il trasferimento alla redazione romana (orbitavo allora tra Genova e Milano). L’Unità subiva nell’86 una prima forte ristrutturazione e nelle redazioni del Nord quasi nessuno voleva muoversi verso la Capitale. Giudicata “infetta e corrotta”?
Il nuovo direttore era Gerardo Chiaromonte: non ho mai capito bene il perché (forse semplicemente ero genovese, città industriale e operaia) mi propose di dirigere il servizio sindacale (si cominciava a dire “economico-sindacale”) nazionale. Ero assolutamente impaurito. Ma la presenza di giornalisti come Ugolini (ricordo anche Renzo Stefanelli, l’unico che capiva qualcosa del mondo finanziario emergente) mi rassicurò moltissimo. (Non parlo poi di quando, al congresso della “svolta” nella sezione del giornale, presentammo la mozione, collegata a Occhetto ma distinta, “Ugolini-Leiss”: ci illudevamo di una lettura “di sinistra”…)
A Bruno mi lega una passione per la classe operaia credo non troppo condizionata da presupposti ideologici, che non voglio certo negare. A Genova ho conosciuto bene gli operai specializzati delle grandi fabbriche metalmeccaniche. Individui fieri della propria professionalità – certamente non “operai-massa” – che godevano di una autorità molto grande. Esercitata senza mischiarsi troppo con le funzioni dirigenti del partito e del sindacato. Una scommessa persa, la loro “egemonia”. Ma una grande scommessa.
È il trasporto e il rapporto con questa umanità concreta che credo condividessimo. E, per quel che ho potuto conoscerlo, sono sicuro condividesse anche l’altro Bruno, Trentin.