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produrre e consumare tra pubblico e privato

Oltre la crisi progettiamo il futuro

19 Giugno 2020
di Daniele Archibugi, Laura Pennacchi, Edoardo Reviglio

Pubblichiamo l’intervento di Laura Pennacchi, Daniele Archibugi e Edoardo Reviglio che ha aperto un dibattito sulla crisi economica prodotta dalla Pandemia del Coronavirus ospitato dalla piattaforma della Cgil “Collettiva”. Pubblichiamo anche gli interventi di Fulvia Bandoli e di Franca Chiaromonte con Letizia Paolozzi.

Di fronte all’avanzare di una recessione che, in conseguenza della pandemia da coronavirus, sta assumendo le proporzioni di un diluvio universale con disoccupazione, precarietà e inattività elevatissime, è urgente restituire alle istituzioni pubbliche una tempestiva e incisiva capacità di ideazione e di progetto per la creazione di lavoro entro un nuovo modello di sviluppo, dando la priorità alla riconversione ecologica, alla domanda interna, ai consumi collettivi, ai bisogni sociali insoddisfatti. Emerge, infatti, che le espansive politiche monetarie “non convenzionali” provvidenzialmente rafforzate dalle Banche centrali di tutto il mondo, non ultima la Bce, e i cospicui trasferimenti cash governativi per sostenere famiglie e imprese, pur essenziali, non sono sufficienti a canalizzare l’enorme liquidità in tal modo creata verso gli investimenti, in particolare volti a creare lavoro e a cambiare drasticamente il modello di sviluppo. Così la liquidità rischia di prendere in larga misura la via dell’alimentazione della finanziarizzazione privata e della speculazione – si guardi alla inquietante vicenda dell’andamento del prezzo del petrolio – e i bisogni sociali fondamentali del paese rimangono insoddisfatti. Può riprodursi un deja vu: anche dopo la crisi del 2007/2008 i tassi di interesse sono stati tenuti molto bassi e l’Italia e il mondo sono stati inondati di denaro a buon mercato, senza che ciò bastasse a far ripartire gli investimenti.
Solo lo Stato (in tutte le sue accezioni: amministrazione centrale, regioni, enti locali), oltre a imporre legittimamente condizionalità (come non licenziare, non delocalizzare, ecc.) alle imprese che fanno ricorso a finanziamenti pubblici, può assumersi il compito di far ripartire gli investimenti. E deve farlo non solo “compensando” le persone per le drammatiche difficoltà che stanno fronteggiando con un trasferimento monetario indiretto (quali sono il reddito di emergenza, di esistenza, di sopravvivenza, di cittadinanza, ecc., ma anche i benefici fiscali). Per questo vanno riscoperte parole fondamentali come “programmazione”, “pianificazione”, “capacità progettuale”, rielaborate in forme inedite. L’aggancio con un’Europa che si sta rivelando fortunatamente molto più attiva e espansiva del passato è fondamentale, ma sappiamo che, mentre le risorse finanziarie non mancheranno e saranno imponenti grazie anche al Recovery Fund su cui dovremmo concentrare grande attenzione, potrebbero difettare le nostre attitudini nell’utilizzarle concretamente. È già purtroppo avvenuto con i Fondi strutturali della Commissione europea e non ci possiamo permettere di farlo accadere di nuovo. La forza delle politiche industriali della Francia e della Germania sono note. E la nostra? Per evitare che le divergenze tra Paesi europei vengano rafforzate e per non perdere un’occasione storica di rinnovamento, bisogna che anche l’Italia a) identifichi delle “missioni” per interventi economicamente e socialmente prioritari con forti effetti moltiplicativi, b) individui i soggetti a cui affidare le “missioni” e i “progetti” specifici per realizzarle. Con le parole di Romano Prodi “serve un piano dello Stato per far ripartire le imprese”, comprensivo dell’attivazione di una struttura pubblica con task-force a livello ministeriale, rafforzata da “squadre di specialisti”, in grado di prender parte a “decisioni strategiche fondamentali, come la variazione degli assetti proprietari” .
Pertanto, va creata in primo luogo una sede istituzionale centrale, costituita con il concorso di più ministeri – da quello dell’Economia a quello per il Mezzogiorno, a quello per lo Sviluppo, a quello dell’Università, a quello dell’innovazione – che bandisca e promuova in tutto il paese con procedure accelerate una eccezionale stagione di progettazione e di accumulazione di progetti. Si tratta di costruire uno “stock di progetti” ampiamente articolato, suscettibile di usi plurimi, utilizzante diverse energie intellettuali, a partire da quelle universitarie, che coinvolga tanti campi: salute, scuola, università, ricerca, riconversione ecologica, riqualificazione dei territori, nuova agricoltura, rigenerazione urbana, beni culturali, cura, tempo libero, innovazione sociale. Per la realizzazione serve una pluralità di strumenti: senza escludere di potenziare il Cnr e l’appena istituito Fondo nazionale innovazione o di utilizzare al meglio istituti ancora esistenti nel nostro ordinamento come l’impresa a partecipazione pubblica, lo strumento dell’Agenzia proposto dalla Cgil sembrerebbe particolarmente appropriato, date le straordinarie attitudini di inventiva, creatività, creazione dal nulla che sarebbero necessarie. Prendiamo davvero ispirazione da ciò che fece Roosevelt con il New Deal, quando inventò molte istituzioni, tra cui i Job Corps, le Brigate del lavoro. La creatività e lo sperimentalismo istituzionale del New Deal furono tali che non ci si limitò ad aprire cantieri, ma con la Wpa (Works progress administration) vennero create attività nella scrittura, nelle rappresentazioni teatrali itineranti, nella musica, nelle arti figurative mediante i murales per gli edifici pubblici, nella raccolta delle testimonianze orali di migliaia di americani divenute epiche, con cui venne dato lavoro ad alcuni dei maggiori artisti americani, tra cui Miller, Welles, Kazan, Pollock, Rothko. È un’esperienza che ha lasciato il segno tanto che oggi Hans Obrist (codirettore della Serpentine Gallery di Londra) si richiama alla Wpa e alla Pwap (Public Works of Art Project) al fine di sollecitare lavoro anche per l’arte e per gli artisti .
C’è invece chi oggi chiede di essere rassicurato sul fatto che l’intervento dello Stato sia transitorio, buono solo per turare le falle più importanti, ma pronto a lasciare al mercato di garantire la ripresa appena saremo usciti dalla pandemia. Queste preoccupazioni sono infondate. Prima di tutto perché la crisi avrà effetti duraturi. In secondo luogo perché questa può essere l’occasione per porre rimedio al deteriorarsi delle capacità funzionali minime delle Stato. Si prenda in considerazione il fatto che, a differenza che in Danimarca, in Francia, in Germania e altrove, da noi l’ipotesi di riaprire le scuole prima dell’estate non è stata nemmeno presa in considerazione. È un esempio della portata del depotenziamento e della dilapidazione di capacità della pubblica amministrazione italiana, stretta per decenni tra la pressione dell’egemonia neoliberista da una parte, l’incapacità riformatrice dall’altra. L’imponente arretramento dello Stato si è risolto in un prosciugamento delle sue energie. Lo starving the beast di bushiana memoria – concretizzatosi in tagli delle tasse a vantaggio dei ricchi, evasione fiscale, ulteriore contrazione delle entrate pubbliche – ha talmente affamato la “bestia governativa” da averla quasi tramortita.
Non si tratta soltanto della situazione generata dalle esternalizzazioni, dalle semplificazioni disinvolte e dalla conseguente deresponsabilizzazione per i risultati: un “girone dantesco” di leggi che cancellano altre leggi, procedure che coinvolgono i ministeri competenti in riunioni e veti incrociati, funzionari pubblici prossimi alla pensione ma imprigionati dal blocco del turnover e perciò riluttanti a firmare alcunché, incongruenze nella legge sugli appalti, decine di fondi per la scuola ciascuno gestito da qualcuno gelosamente pronto a bloccarlo e così azzeccagarbugliando. L’Italia è oggi caratterizzata da un contesto governativo-amministrativo generale in cui si manifestano una riluttanza a intervenire con politiche dirette e misure strutturali e una preferenza verso politiche indirette, quali contare sulla liquidità creata dalle Banche centrali, mobilitare le banche contro il credit crunch, fornire garanzie pubbliche ai prestiti bancari, consentire di rinviare le scadenze dei pagamenti, erogare a imprese e famiglie bonus, aiuti, sostegni di varia natura, in una parola politiche indirette consistenti soprattutto in trasferimenti monetari i cui effetti immediati – al netto di imperdonabili lungaggini e intoppi burocratici – sono nell’emergenza indubbiamente sacrosanti. Ma possiamo rassegnarci a una simile situazione?
Di fronte alla devastazione pandemica bastano politiche monetarie pur straordinarie agenti soprattutto sulla liquidità e politiche di spesa pubblica sostanzialmente basate sui trasferimenti monetari i quali, necessari nell’emergenza e quando le difficoltà non siano altrimenti aggredibili come nel caso della povertà, hanno comunque un valore “compensatorio” non “promozionale” e non sono in grado di agire sulle strutture e di cambiare il modello di sviluppo? Proprio colpiti dalla crescente “problematicità del processo di investimento” – ricordando che più di un’eco di una simile “problematicità” compariva nel Piano Meidner della socialdemocrazia svedese (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari) – vanno poste come questioni cruciali a) la creazione di lavoro, b) gli investimenti. Tanto più oggi questa è la strada da aprire con assoluta urgenza, senza esitare a mettere in campo ipotesi di nuova “democrazia economica” e a immaginare di fare ricorso allo Stato come “employer of last resort” secondo le ipotesi di Minsky, Meade, Atkinson, se non vogliamo che, una volta che l’epidemia sarà stata domata, tutto riparta business as usual, con l’unica variante di una maggiore diseguaglianza
Dunque, è qui che dobbiamo concentrare tutte le nostre energie ideative. Se lavori e attività diversi vanno creati, mobilitati, messi insieme, ci vogliono “progetti”, tanti, in molte aree, interdisciplinarmente costruiti. Per la riqualificazione dei territori, per esempio, debbono operare congiuntamente urbanisti, architetti, archeologi, biologi, operatori sociali, geologi (una volta ogni comune ne aveva almeno uno, oggi sono stati tutti tagliati e le Università chiudono le facoltà di geologia, ma intanto le nostre montagne franano alla prima pioggia …). In tutto il Paese si dovrebbe subito dar vita a progetti di manutenzione viaria e infrastrutturale straordinaria (anche tenendo conto che in simili opere il distanziamento sociale è facile da realizzare). Nell’università, a fronte del prevedibile calo degli iscritti, bisognerebbe andare controcorrente e reclamare l’assunzione in pianta stabile, per destinarli a progetti oltre che alla didattica, di migliaia di ricercatori e docenti, assunzione che non basterebbe nemmeno a sanare l’emorragia di risorse umane indotta, oltre che dai tagli, dal blocco del turnover, valorizzando le tante iniziative che comunque stanno prendendo piede, tra cui l’organizzazione, segnalata da Prodi, da parte della Bologna Business School di “squadre di soccorso” per le pmi in difficoltà con consulenze gratuite degli studenti dei corsi di master. Nella scuola c’è una caterva di cose da fare molte delle quali subito (dando risorse e autonomia ai plessi, i presidi, i dirigenti scolastici), a partire dalla riqualificazione dell’edilizia scolastica, dove due edifici su tre hanno più di trenta anni e di cui solo il 22% è stato ristrutturato, mille scuole sono state costruite nell’Ottocento e più di tremila tra la fine del 1800 e il 1920, di quasi settemila edifici non si conosce neanche la data di costruzione. E gli esempi potrebbero continuare, dall’efficienza energetica, agli interventi antisismici, al recupero delle aree interne, alla valorizzazione dei beni culturali e di tutte le attività di “cura”, a un’agricoltura più sana e meno intensiva (che spezzi anche la catena di trasmissione dei virus dagli animali agli esseri umani).
Insomma, il sostegno ai redditi è indispensabile e sono state coraggiose le iniziative finora intraprese per garantire che nessuno venisse lasciato solo. Oggi l’Italia ha bisogno di fare un balzo in avanti per la ricostruzione economica, sociale e occupazionale e questo richiede che tutte le risorse disponibili siano impiegate per progettare e realizzare il futuro.

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