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In una parola / Opere operai operaismi

15 Gennaio 2020
di Alberto Leiss

Benedetto Vecchi

Pubblicato sul manifesto il 14 gennaio 2020 –

Opera , dal latino opus, come si sa vuol dire qualcosa che si crea lavorando, manualmente ma non solo. Ci sono le opere dell’ingegno, della creatività artistica, le opere buone che parlano della cura del prossimo, e se vado all’Opera si capisce che raggiungo un teatro dove si canta e si suona. Nel dizionario on line che frequento abitualmente (si tratta del “famoso” – così è presentato – Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani) ho trovato anche il riferimento a una radice ariana AP-, che significherebbe toccare, cogliere, ottenere, raggiungere. Op-tare richiama il desiderio e la scelta.
Dunque non parliamo solo di manufatti, ma di processi complessi, in cui gli aspetti materiali si mescolano con le inclinazioni dei sentimenti, con la ricchezza del cervello e del cuore.
Gli operai ci hanno conquistato perché la loro abilità e disciplina nel fabbricare si univa all’idea di un sovvertimento liberatorio dello stato delle cose presente (liberandosi del lavoro stesso – ma su questo ci sarebbe da discutere…).
Pensieri vaghi e forse banali legati alla impressione forte vissuta partecipando al ricordo di Benedetto Vecchi nel grande locale, gremitissimo, di ESC, centro sociale in via dei Volsci a Roma, acronimo che vuol dire se non erro Eccedi Sottrai Crea (ne ha scritto qui Eleonora Martini).
Non conoscevo personalmente Benedetto, se non attraverso qualche scambio di mail e qualche telefonata, o la partecipazione a incontri pubblici, e ascoltando tutte le persone che ne hanno parlato mi è dispiaciuto non averne avuto l’occasione.
Di lui si è detto tra l’altro che “da comunista” godeva del piacere degli altri. E questa mi è sembrata una definizione del comunismo veramente apprezzabile. Così come molto apprezzabile è stato il sentire ripetere che con lui erano possibili e frequenti dissensi anche molto profondi che però non intaccavano la qualità delle relazioni personali.
E insomma, il racconto di una posizione tanto più radicale quanto aperta e non settaria: non è questa la postura mentale e politica di cui avrebbe bisogno una sinistra in cerca di nuove idee e pratiche?
Purtroppo di radicalità non settaria se ne vede poca in giro.
Un operaista, anzi, chissà perché, post-operaista, certamente un settantesettino. Non è la mia storia ma è una storia a cui ho sempre guardato con grande interesse, intanto per la passione – l’ossessione quasi – per l’analisi e lo studio, nella convinzione che “non esistono più intellettuali” ma tutto il lavoro è lavoro intellettuale, e che non si può combinare nulla in politica (come in qualsiasi altra cosa, direi) se non ci si impegna seriamente a cercare, capire, conoscere, condividere, sperimentare. Contribuendo a costruire e a fare agire quell’”intelletto generale” che resta una delle intuizioni più ricche di Marx.
Ma la cosa che più sento anche mia di quanto ho ascoltato riguarda un atteggiamento verso la vita che non nega il bisogno e il desiderio, qui e subito, e non in qualche futuro paradiso in terra, del piacere, della gioia, della qualità degli affetti, amori, amicizie, che si celebrano anche intorno a una tavola imbandita e dotata di congrue quantità di buon vino.
Tutte queste parole su parole, alla fine, per unirmi anch’io, vicino a chi gli vuole bene, al ringraziamento verso una persona che si è molto impegnata per far vivere questo giornale, che da tempo mi ospita con enorme cortesia. Un grazie che si estende naturalmente a tutte le altre e altri che rendono possibile questa specie di miracolo. Norma Rangeri ha ricordato in quell’occasione che si avvicina, tra un anno, il 50° anniversario del manifesto. Che sia solo il primo mezzosecolo di questa bella opera…

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