Pubblicato sul manifesto il 29 ottobre 2019 –
“L’orrore… l’orrore”, è il grido di Kurtz morente alla fine di Cuore di tenebra di Conrad, rilanciato con forza mediatica contemporanea da Marlon Brando in Apocalypse now di Francis Ford Coppola. Quel grido risuona quotidianamente nelle nostre orecchie e mi sembra un imperativo categorico quello di non farci l’abitudine fino a non percepirlo più.
Orrore ho provato seguendo i tweet di quello che oggi è l’uomo più potente del mondo, che racconta “come in un film” la morte dell’arcinemico Al-Baghdadi. Costui si è macchiato di crimini politici e comuni disumani. Ma non hanno certo le “mani pulite” coloro che lo hanno scovato, al confine tra Siria e Turchia, guarda caso dopo le intese tra Erdogan, Trump e Putin sul “riassetto” di quei territori sulla pelle dei Curdi. Una “accordo” costato qualche altro migliaio di uomini e donne assassinati, oltre a centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire tra le bombe, le distruzioni, la paura e la morte.
Ringrazio chi, in particolare alcuni giornalisti e giornaliste, ci aiuta a non abituarci all’orrore. Nello Scavo, di Avvenire, che ha scritto di intese inconfessabili tra Italia e Libia, sulla pelle dei migranti, Francesca Mannocchi, che ha ripreso il tema con testimonianze dirette sull’Espresso con il fotografo Alessio Romenzi, e ne ha parlato insieme a Scavo a Propaganda Live. Sergio Scandura, di Radio Radicale, che ci tiene informati sulla orribile situazione del nostro mare Mediterraneo, dove centinaia di uomini, donne e bambini, continuano a rischiare la vita, e a perderla, e che proprio in queste ore subiscono nuovamente la tortura di non sapere per giorni e giorni che ne sarà di loro.
In tutto questo continua a colpirmi l’altalenante, ma sostanzialmente permanente silenzio su tutto quello che sta accadendo in Libia. Non voglio alzare il dito contro l’informazione mainstream nazionale, ma porre una domanda. Già subito dopo la fine, orrenda, di Gheddafi si è verificato un lungo black out, un “buco nero” su quanto stava succedendo in quel paese. Oggi, dopo un certo clamore suscitato soprattutto dalle nostre paure sull’”invasione” dei migranti, e quando l’iniziativa militare di Haftar ha assottigliato fino a farla scomparire l’ipotesi di una soluzione politica pacifica alla guerra civile endemica seguita al crollo del regime, siamo di nuovo a una sorta di silenzio stampa.
Eppure l’Italia è uno dei paesi che ha rapporti più stretti con la realtà libica – ora si discute se rinnovare le (tristemente) famose convenzioni sull’immigrazione – ha una sua ambasciata, e soprattutto il nostro colosso economico Eni ha una presenza molto molto consistente.
Non sono esperto di cose petrolifere, ma basta aprire il sito dell’Eni per sapere che il “governo” della grande impresa pubblica italiana si estende su migliaia di chilometri quadrati del territorio libico, con un sistema di contratti che ne prevede l’attività fino a quasi metà del secolo. I regimi, le bande armate e le tribù forse passano, ma l’estrazione del petrolio, e tutti i passaggi di molto, troppo denaro che alimenta, restano.
La pubblicità dell’Eni è piena di buoni propositi ecologici e di retorici inviti ai cittadini di collaborare nelle buone pratiche, per esempio risparmiando l’acqua… Forse il gigante energetico italiano potrebbe fare qualcosa per sostenere una “ecologia” dell’informazione sulla Libia?
Probabilmente sarebbe una informazione “embedded”, ma conoscere in modo trasparente con continuità anche solo il punto di vista di chi ha forte voce in capitolo in quei luoghi e fa parte di una potentissima rete globale non potrebbe aiutare a farsi un’idea della realtà e a combatterne gli orrori?