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Microcritiche / Amare uguale soffocare?

11 Agosto 2019
di Letizia Paolozzi

Tesnota – Film di Kantemir Balagov con Darva Zhovner e Olga Dragunova, distribuzione Moved Inspired, premio FIPRESCI alla sezione Un certain regard di Cannes nel 2017.

Nalchik, capitale della Repubblica autonoma Kabardino-Balkaria (inclusa dal 1936 nella Russia), fa da palcoscenico, tra pozzanghere e fettucce grigie dei caseggiati (era la pensata urbanistica dei sovietici per la collettività), alla vicenda.
Siamo nel 1998 e questa storia “vera”, come ci assicura il regista all’inizio del film, tiene insieme la diaspora ebraica, una comunità sempre meno solidale, una famiglia bisognosa di aiuto, dei musulmani che parlano cabardo (lingua caucasica nordoccidentale). Si propaga l’eco del massacro ceceno.
Ma la macchina da presa punta a ciò che si nasconde nelle relazioni famigliari. C’è la madre che coltiva un amore sfrenato per il figlio, David, e una indifferenza venata di disprezzo per il carattere ribelle della figlia, Ilana (bravissima, appassionata e passionale Darya Zhovner).
Quando David (con la fidanzata) viene sequestrato, accetta di “vendere” la figlia, dandola in sposa per trovare i soldi del riscatto. Non ci riuscirà perché Ileana, che ama un ragazzo cabardo, si ribella. Da notare che l’aspirante sposo lascerà comunque a Ilana la busta con i soldi.
Ilana corre tra le braccia dell’amato e qui si rende conto che i cabardi sono sempre più tentati dalle immagini spettacolarizzate degli sgozzamenti in Cecenia. Lo mostra il frammento terribile di un documentario con la decapitazione di due soldati russi, girata in un villaggio del Daghestan e preceduta dal video home made di un cantante e militante islamico ceceno che sparge veleno antisemita.
L’odio razziale, etnico, religioso è sempre pronto a riesplodere e le regole morali riemergono in tutta la loro forza. Sono un riparo sicuro che tuttavia non lascia scampo agli individui.
D’altronde “Tesnota” significa “vicinanza” (il titolo in inglese è Closeness, prigione, costrizione soffocante, ristrettezza). Balagov, che è stato allievo di Sokurov prima di essere disconosciuto, inquadra i particolari; occhi, mani, sguardi dilatati all’estremo, ingranditi dalla luce mentre il rapporto (il formato 4/3) tra lunghezza e altezza delle immagini sembra costringerle nel poco spazio a disposizione. Immagini guardate da vicino e subito dopo sfarinate nella lontananza. Certo, le pause lunghissime rischiano di far crollare le aspettative e la pazienza degli spettatori.
Magari queste pause funzionano per accentuare il senso di chiusura di un universo ancestrale pronto a risucchiare gli individui. Se la famiglia per salvare David è disposta a perdere Ilana, perché lui è il maschio, perché la femmina vuole sfuggire alle leggi che regolano i rapporti di sangue e di comunità, alla fine David da quella famiglia si strappa per rimanere con la fidanzata.
Ilana invece la seguirà nella nuova diaspora. Eppure prova a divincolarsi dalla madre che vuole avvolgerla nelle sue braccia eleggendola a nuovo oggetto da amare. E da soffocare.

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