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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Dalla Spagna all’Europa: le donne faranno la differenza?

3 Maggio 2019
di Letizia Paolozzi

Siamo in un momento di forza dei movimenti delle donne. Nel tempo del MeToo che ha liberato la parola femminile. Cambia qualcosa nel gioco elettorale e, più precisamente, nelle prossime elezioni europee?
Certo, una può dire: “Questa roba non mi interessa affatto” ma quante hanno paura di un assestamento autoritario della società, di un arretramento delle esistenze singole e collettive, quante non apprezzano la foto di un ministro degli Interni con il mitra, sanno di doversi muovere in un sistema di voto proporzionale con la possibilità di esprimere fino a tre preferenze per candidati della stessa lista ma di sesso diverso, pena l’annullamento del voto.
D’altra parte, se la promozione delle donne è una tesi alla quale l’Unione europea crede fermamente, ciascun paese segue le sue regole. Mentre sulla presenza femminile la disparità tra paesi del nord e del sud è conclamata, non tutti i paesi sono appassionati delle quote. Qualcuno promette di tenerle per un tempo delimitato, altri puntano sulla parità; in Romania la legge impone che nessuna lista sia al 100% maschile. Attualmente, le deputate che concludono il mandato a Bruxelles rappresentano un po’ più di un terzo (cifra in progressione rispetto alle elezioni precedenti).
Il numero delle elette dipende da vari fattori: la buona o cattiva volontà dei partiti; l’organizzazione delle preferenze; la posizione in cui vengono collocate nelle liste. Non c’è dubbio che gli uomini, i capi, i leader continuino a spadroneggiare. Ulteriore problema, il sostegno femminile alle candidate: le italiane pare si fidino poco di questo tipo di “sorellanza ”.
Da che dipende? Anche qui, da vari fattori ma il mio dubbio è che l’inclusione di cui si carica lo Stato infilandole in una sorta di riserva protetta le esoneri dal dimostrare quanto valgono. 
Al tempo stesso, diventa sempre meno accettabile una lista monosessuata (al maschile). Se l’essere umano si dà maschio e femmina e se le donne sono la metà del mondo e non una minoranza, la cancellazione di un sesso suscita vero sdegno (non solo tra le donne).
Su settantasette cantanti erano in quattro al Concertone del Primo Maggio a San Giovanni: un palco (o un libro di scuola o la presidenza di un convegno) sequestrato dagli uomini nonostante le donne sempre più spesso insorgano contro gli stereotipi, la condizione di passività, il ruolo di vittima. Nonostante abbiano preso in mano il proprio destino.
Dopo le elezioni del 28 aprile, la Spagna si è ritrovata con 164 deputate su 350. I primi due partiti, socialisti e popolari, hanno più donne che uomini.
Merito delle quote (introdotte nel 2008)? Non soltanto.
Il manifesto (#28ALasFeministasVotamos), firmato da oltre 150 organizzazioni e collettivi femministi, presentato ai principali partiti politici (all’incontro a Madrid c’erano Psoe, Podemos, Ciudadanos), iniziava così: “Per favore, compagne, sorelle, andate a votare il 28 aprile. Mai i risultati di un’elezione hanno minacciato i nostri diritti e le nostre libertà in questa maniera. Non restiamo in casa. Andiamo a bloccare l’ultra destra”. Si è determinata la convergenza su un obiettivo (rifiuto dell’astensione) tra chi è andata a votare e chi è stata votata.
In Italia, a guidare la lista 5 Stelle ci saranno cinque candidate e La Sinistra (Sinistra italiana con Rifondazione) ha quattro capolista. Si dice che le donne facciano “la differenza”: idee, soluzioni nuove potrebbero rivelarsi un toccasana per la politica in condizione critica. Benché questa presenza femminile si riveli piuttosto un sintomo di cattiva coscienza: promuovere un sesso nelle liste elettorali – già lo aveva fatto Renzi alle scorse elezioni europee – non significa automaticamente cambiare pratiche e obiettivi da parte delle forze politiche.
D’altronde, le elette nel parlamento italiano in questa fase non hanno brillato per autonomia (una delle poche eccezioni, Mara Carfagna di Forza Italia), per capacità di tessere relazioni con le loro sorelle che fanno politica nella società. Anzi, se la devo dire tutta, mi sono apparse sorde al femminismo, chiuse nel loro “separatismo istituzionale”.
Sul manifesto (del 5/4/2019) Rossana Rossanda, una grande donna che non si da per vinta, incalza il segretario della Cgil, Maurizio Landini: … “da sempre la specificità del pensiero e delle pratiche femminili sono state escluse dalle forze politiche e sindacali… appunto per questo bisogna invertire la rotta… C’è un rapporto ineguale, che ha comportato nei secoli il dominio maschile sulla società: questo è il nodo della questione”. Divincolandosi, il segretario CGIL ammette che sì, esistono resistenze…. Ritardi… Diffidenze reciproche….
In una lettera rivolta a Landini e pubblicata sempre sul manifesto (del 20/4/2019) un gruppo di femministe e sindacaliste scrive che a loro “piacerebbe proprio che un altro genere di sindacato fosse possibile”.
Tuttavia, la questione del produrre e riprodurre, di quanta energia le donne mettono in un’opera invisibile ma necessaria al vivere, è solo sfiorata. Quasi che non ci sia nulla da pensare rispetto alle relazioni che si prendono cura del mondo, dell’ambiente, del modo di lavorare e di confliggere tra valori in competizione.
E’ evidente che la democrazia annaspa. “Dio è morto, Marx è morto” e la rappresentanza non si sente tanto bene mentre il potere politico offre di sé immagini inquietanti.
Sarà per questo che Non una di meno afferma di “voler restare fuori dall’arena elettorale”? In un comunicato (https://nonunadimeno.wordpress.com) il movimento ribadisce: “Non vogliamo piccole riforme che modificano la condizione di pochi mentre lasciano intatte le gerarchie che ci opprimono, i confini che ci dividono e la violenza sociale che ci schiaccia”. Bisogna invece rivendicare “l’autonomia”; rifiutare “ogni forma di gerarchia e delega, facendo dell’orizzontalità e del consenso assembleare la base della nostra pratica politica”.
Non proprio un invito all’astensione ma una lontananza, una estraneità forse dettata da una debole ambizione, dall’orrore per la competizione. O dal timore di creare dissidi al proprio interno?
Il movimento “antirazzista, antisessista, anticapitalista” procede con il “consenso assembleare”, nessuna più avanti o più indietro, assieme alle persone LGBTQI+, ai migranti. Una alleanza – di sesso, di classe, di razza – tra le vittime (la chiamano “internazionalità”)?
Eppure, andrebbe cercata una pratica di relazioni che trasformi le vittime in soggetti. Il separatismo serve a preservare la propria identità, tuttavia non mi sembra il congegno adatto per combattere le ingiustizie.

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