Anima / Corpo

benessere malessere, la scienza, lo spirito, la vita

Accademia sulla Cura / Il lavoro non visto necessario al mondo

3 Luglio 2018
di Letizia Paolozzi

Il mito di Cura

Il 14 e 15 maggio scorsi si è svolta presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, nell’ambito delle Accademie della Maestria Femminile, l’Accademia sulla Cura, aperta da Letizia Paolozzi, con interventi di Alessandra Bocchetti, Elettra Deiana, Bianca Pomeranzi e Alberto Leiss. Da oggi iniziamo la pubblicazione dei materiali prodotti in quell’occasione con la relazione di Letizia Paolozzi.

Quello che proveremo a fare oggi con voci, esperienze diverse sarà riflettere sulle avventure del termine: Cura. Sicuramente il senso dl termine è controverso ma appunto questo provoca discussione. E io spero qualche passo avanti.
Partirei dunque dalla figura tratteggiata da Igino, nel suo manuale mitografico Fabule.
Cura, nell’attraversare un fiume, è attratta dal fango argilloso….. pensosa, si mette a modellare il fango traendone una figura di un uomo. E’ in quel momento che sopraggiunge Giove al quale la dea chiede di infondere spirito vitale nella scultura e Giove acconsente. A questo punto Cura domanda a Giove di poter imporre il proprio nome alla creatura ma il dio glielo nega sostenendo che quel nome deve venire da lui che gli ha infuso la vita. Ne nasce una disputa che si complica quando si unisce la Terra: questa ritiene che il nome debba essere il suo, essendo sua la materia con cui è plasmata la creatura. Per risolvere il contenzioso viene chiamato Saturno il cui giudizio distribuisce le rivendicazioni: a Giove che ha infuso lo spirito toccherà alla morte di quell’essere di rientrare in possesso dell’anima; alla Terra della cui materia è composto tornerà il corpo dopo la morte; il nome non toccherà a nessuno dei tre ; si sarebbe chiamato “uomo” perché creato dall’humus. A possederlo durante la vita sarà l’Inquietudine (da intendersi come preoccupazione, ansia, Cura), che è stata la prima a plasmarlo.
Dal mito romano ai significati differenti della Cura: prestare attenzione, impegnarsi, responsabilizzarsi, tenere conto.
Sceglierò la definizione di una studiosa, Joan Tronto, nel suo libro “Confini morali” perché più rispondente al mio ragionamento. Dice Tronto che la Cura va vista come “Una serie di attività che include ciò che facciamo per riparare, mantenere, continuare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nella maniera migliore possibile”
Ognuna/o di noi ha esperienza della Cura. Non un’azione sdolcinata, sentimentale ma un’opera di costruzione, di crescita, di rafforzamento del sé e del rapporto con gli altri nel quale viene rimessa in discussione la separazione tra Produzione intesa come lavoro salariato, e Riproduzione intesa come lavoro non pagato.
La separazione tra il lavoro salariato (generalmente svolto dagli uomini) e quello non pagato o scarsamente riconosciuto (svolto dalle donne) c’è ancora ma da quando le donne hanno cambiato l’agenda delle priorità e hanno messo a tema l’esistenza di una componente ineliminabile del lavoro necessario per vivere, si guarda alla Cura con un nuovo interesse.
C’è dunque un lavoro non visto (Marx lo avrebbe definito il valore d’uso di una merce: la proprietà di essere utile, di soddisfare bisogni umani) ma altrettanto importante di quello scambiato per un reddito.
In effetti, sapreste dare un valore quantificabile al fare un figlio, crescerlo, assistere una persona, organizzare un trasloco, un pranzo per gli amici, insegnare la lingua agli immigrati, ascoltare il committente che vuole una casa a sua misura, etc? Si tratta in un numero infinito e varietà di casi, di attività affettive, di gesti d’attenzione, di responsabilità che vengono indicati con il nome di Cura.
E chi ha prodotto per secoli la Cura? In grande parte, le donne.
Come Gruppo delle femministe del mercoledì abbiamo scritto un testo, “La cura del vivere” fatto girare e discusso in giro per l’Italia, che riflette sulla Cura a partire da noi stesse (Mario Tronti dice: “Il tempo richiede una cura di sé, dell’io interno): la Cura, noi affermiamo, non è lavoro residuale né coincide con lo spazzare i pavimenti delle nostre case. Ma può trasformarsi in uno sguardo più ampio e consapevole su tutto il lavoro necessario per vivere.
Pensando alla mia vicenda biografica, in passato il problema principale mi era sembrato una cattiva redistribuzione del lavoro famigliare: per via delle istituzioni sorde e cieche, dei servizi inadeguati, della pigrizia a fare cose umili da parte del mio compagno e della società che continuava a essere basata sulla divisione del lavoro tra i sessi.
Certo, avevo sentito un campanello d’allarme con mio figlio piccolo: il padre per traversie politiche non era con noi e molta era la fatica di occuparmene. Tuttavia, di quella fatica andavo anche molto fiera. Ero una specie di figura al femminile del personaggio di Tarantino, il signor “Risolvo problemi”.
Mi leggevo Spock, volevo applicarlo alla lettera.
Dododiché mi si sono sfarinate le fantasie di autosufficienza.
Le difficoltà da affrontare, il tramonto delle persone care sono elementi che ti fanno cambiare idea, ti costringono a mettere in questione la famosa autonomia del soggetto sulla quale si è retta tutta la filosofia occidentale. Impari a patteggiare con le resistenze, a porti invece di sbieco – con una sorta di resilienza? – come spiega la filosofia cinese.
Non sono più l’adulta libera, emancipata, autonoma e fiera di esserlo di un tempo – il soggetto del contratto sociale –. La Cura è un’esperienza che mi ha cambiata. Non so se sono diventata più buona (lo escluderei) però, sicuramente, si è modificato il mio sguardo. Ho cominciato a prendere altre misure, ho acquisito un sapere.
Vero è che le donne sono partite dalla presa di coscienza (Alessandra Bocchetti) per scoprire l’importanza delle relazioni con gli altri, con il mondo (o le vacanze insieme, i progetti, i collettivi, i gruppi, le librerie!). Una concezione individualistica della vita che insista sull’autocostruzione del soggetto umano è un inganno simbolico. Anzi. Non è una buona vita quella che si isola dallo sguardo dell’altro.
Naturalmente, la Cura non va esente da conflitti. Perché si può scatenare un abuso di potere, con una sorta di “predazione”, di spossessamento che consiste nell’appropriarsi della vita dell’altro, oppure, al contrario, nel narcisismo e nel piacere di dominare da parte del forte sul debole, fragile, vulnerabile (Marie-France Hirigoyen “Molestie morali – La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro” Einaudi 2015 traduzione di Monica Guerra ed fr 1998).
Quando c’è Cura e dunque bisogno, si cammina sul rasoio di Occam tra rispetto e negazione. Può sempre venire fuori un elemento perverso di annientamento dell’altro “per il suo bene”.
A me sembra che questo sia accaduto alla condizione femminile per molto tempo. C’era dietro la Cura erogata dalle donne un fascio di sentimenti e d’imposizioni sociali, modelli e stereotipi che comandavano “per amore o per forza” un certo comportamento, la collocazione in uno stato d’inferiorità.
Ha fatto comodo che la Cura fosse rinchiusa in una serie di attività in prevalenza femminili, con il risultato di non attribuire valore alle donne perché la Cura cioè queste attività vengono considerate senza valore.
Negli anni Settanta una parte del femminismo processò la cura come abnegazione, dedizione al maschile, alla famiglia, alle necessità altrui senza occuparsi di sé, rinunciando a sé.
Quel femminismo aveva ragione. Si trattava di sfruttamento delle donne. La Cura in modo invisibile tendeva a conservare ruoli subalterni, privilegi, ingiustizie nella distribuzione del potere. Oscurando, con la svalutazione materiale e culturale, l’importanza di un comportamento simbolico e pratico, quotidiano e necessario, un lavoro che la maggior parte delle persone fa nel corso della propria vita.
Eppure questo modo di intendere la cura è cambiato. Naturalmente, devono smettere di funzionare i rapporti di forza asimmetrici (in famiglia, sul lavoro, in azienda). Ci aspettiamo questo dal potente grido del #MeToo che sta passando come un’onda su Hollywood, la sala ovale di Washington, i palazzi della politica, il salone del Nobel, le palestre, le sfilate di moda, il Metropolitan Opera di New York, il tappeto rosso di Cannes. Le donne che hanno rotto il silenzio (copertina del “Time” come persona dell’anno), premio al “New Yorker” per gli scoop di denuncia.
I problemi delle donne e degli uomini, del reddito, della condizione migrante, della crisi climatica si incrociano e si sovrappongono all’interno dell’esperienza di ognuno di noi. E sono problemi ai quali si possono trovare delle risposte sempre che la cura degli altri diventi comportamento comune (Noemi Klein Una rivoluzione ci salverà Perché il capitalismo non è sostenibile).
Ma la politica da quest’orecchio non ci sente. Come vediamo in questi giorni di discussioni sul governo tutte al maschile.
L’esperienza ha insegnato al nostro sesso l’importanza di prestare attenzione alle relazioni. Il pensiero femminista è stato inventore sia del “soggetto in relazione” sia del “paradigma della cura” giacché non possiamo cancellare con un tratto di penna la debolezza di un corpo infantile o che invecchia, la condizione materiale disagiata dell’uno rispetto all’altro e l’interdipendenza che ci lega gli uni agli altri(Elettra Deiana).
Io direi che il soggetto scopre insieme “la propria libertà e la propria responsabilità nei confronti degli altri” proprio in quanto soggetto in relazione. Il lavoro famigliare o di riproduzione è un lavoro relazionale che serve a connettere risorse e persone, tiene insieme generazioni e forme famigliari, combina risorse e beni prodotti sul mercato per adattarli alle esigenze personali sia materiali sia emotive. E’ un lavoro della conoscenza che mette in campo valori e desideri e in cui quotidianamente si inventa, si innova.
D’altronde, nessuno di noi è autonomo, tutti siamo dipendenti.
Ho visto a Firenze, nella galleria degli Uffizi, le straordinarie opere di Maria Lai. Sono opere che portano le impronte di una terra antichissima: il filo che “lega e collega”, i telai dell’arte sarda che rimandano al mito di Penelope la quale di giorno tesseva e durante la notte scioglieva la tela.
E la tela – pensate ai sacchi di Burri, ai tessuti irrigiditi dal caolino di Piero Manzoni degli anni Sessanta – allude alle casse di risonanza di antichi strumenti a corda oppure si ritrova con un gioco di segni nei libri cuciti assieme e nelle pagine dalla rilegatura allentata: omaggi alla nonna che Maria ricordava mentre rattoppava, rappezzava, rammendava i lenzuoli.
Soprattutto, mi ha colpita il video-performance girato a Ulassai, il paese delle rocce, territorio magico tra strapiombi e falese al centro dell’Ogliastra. Qui, nel suo legarsi alla montagna Maria Lai realizza la prima opera relazionale in Italia ispirata a un’antica leggenda: la storia di una bambina che, durante un famoso temporale, esce dalla grotta dove si era rifugiata, attratta da un bellissimo nastro che vola nel cielo e, con quel gesto si salva da una frana terribile. L’insegnamento è che la bellezza e l’arte, apparentemente così inutili, ci salvano la vita.
Quanto all’azione collettiva, si può riassumere così: quel giorno (l’8 settembre 1981) a un segnale convenuto tutti gli abitanti del paese legano le case tra loro con strisce di tela celeste lunghe 26 chilometri. Una sorta di nastro nudo o variamente decorato a seconda dei rapporti di odio, amicizia, che intercorrono tra le famiglie poi ancorato da alcuni scalatori alla montagna sovrastante Ulassai.
Legarsi alla montagna nasce dalla convinzione che sia necessario intessere un rapporto tra le persone e tra queste e la natura. Il filosofo francese Nicolas Bouriaud la chiamerà “arte relazionale”: un’arte che non si esprime in quadri, in oggetti, ma in un incontro di persone. Sono loro, le persone in carne e ossa i veri creatori dell’opera, grazie ai legami e alle relazioni che mettono in scena da quando nasciamo a quando tramontiamo.
Legami e relazioni senza le quali non si da Cura.
Oggi però nella società domina l’interesse soggettivo non bilanciato dalle relazioni. Sarebbe interessante capire come sia accaduto (è solo e esclusivamente colpa del neoliberismo?) di annegare le relazioni umane nelle scelte individuali.
Comunque, al contrario di ciò che sostiene uno studioso come Rawls, non tutti i cittadini sono liberi e autonomi. Bisogna riconoscere l’esistenza della dipendenza e della debolezza. Bisogna prendersene cura con una manutenzione dell’esistenza simile a quella che Marta Nussbaum chiama “la fragilità del bene”.
Fragilità anche per i tempi che attraversiamo.
Si sta creando un’alleanza di reazionari, una nuova destra cattolica, antimoderna, identitaria che attacca la libertà delle donne, la scelta se abortire o no, quella sul proprio corpo, dove le donne avrebbero di nuovo la parte delle vittime.
I tempi stanno cambiando, cantava Bob Dylan. Ahimé non è detto che cambino in meglio. Quanto più tempo passiamo davanti al computer, tanto meno tempo abbiamo per le carezze, gli sguardi, l’ascolto, in una parola la socialità. E d’altra parte quanto più persone comunicano via web, tanto più fredda diventa la dimensione dei corpi che si incontrano, del modo di essere insieme. Virulenza nei dialoghi, anzi, nei monologhi, insensibilità, disattenzione, violenza, odio, sono tutti guasti di una comunicazione a senso unico. D’altronde, anche il linguaggio neutro oggettivante è un’eredità del patriarcato. Cosa possiamo opporgli? (Alberto Leiss e l’informazione)
Esistono naturalmente varie forme di Cura: il welfare ne rappresenta una. L’economia del dono è un’altra. Disegna la centralità del legame sociale. Nonché un rapporto che resta in parte fuori dal mercato.
Il servizio civile per esempio è una prestazione con qualche corrispettivo. Quel potlach che al giorno d’oggi si traduce nel pagare da bere agli amici, avere un caffè pagato al bar (come a Napoli), è una piccola, minuscola forma di donazione.
Importante è donare il tempo. D’altronde, le donne del “gruppo lavoro” di Milano dicono che il mondo femminile attribuisce al tempo un valore non inferiore ma alternativo al valore che gli uomini danno al salario. Gli uomini vogliono più soldi, le donne più tempo.
Ma se gli uomini vogliono più soldi e le donne più tempo, se gli uomini desiderano il potere e le donne le reti solidali, significa che il soggetto della Cura ha un sesso? Che questo sia avvenuto storicamente non significa che non vada cambiato. Penso che sia pericoloso legittimare una simile delega alle donne considerate le uniche a occuparsi dei bisogni degli altri, inchiodate a un ruolo subalterno.
Soccorrere curare condividere negoziare dialogare devono essere le nuove strategie politiche. E su queste strategie va riplasmata, cambiata, ribaltata la visione che abbiamo della società. La Cura dunque andrebbe praticata non solo dalle donne ma dagli uomini, almeno da quelli che vogliono stare nel mondo con un po’ meno di egoismo e asfittico prometeismo rispetto all’attuale. Non è una buona vita quella che si isola dallo sguardo dell’altro. La porta va tenuta aperta verso l’esterno. La Cura è una proposta per tutti, uomini e donne e per tutte le relazioni comprese quelle con l’ambiente e la natura.
Ma come ha pensato di risolvere il nodo della Cura la sinistra? Attraverso le garanzie collettive e i diritti sociali e dell’eguaglianza. Eppure, ci sono anche molte persone povere, indigenti, non privilegiate, che non rivendicano e si battono per i diritti (cioè per la giustizia) ma per la care, la Cura.
La Cura mette in moto una disposizione a sentire i bisogni di qualcun altro con una intensità che non sapevi di possedere. Spezza la fantasia e l’orgoglio di una individualità autosufficiente e compiuta in se stessa. L’irresponsabilità e la disattenzione. Non ti consente più di pensare “la società” ignorando la normalità della dipendenza. I soggetti del contratto sociale di solito sono i contraenti adulti, liberi e indipendenti – maschi. In un simile quadro il farsi carico degli altri scompare. C’è individualismo, povertà di relazioni.
Su tutto questo bisogna provare a discutere.
Le forme della Cura prendono strade silenziose, non roboanti, capaci però di costruire comunità flessibili, rimettendo al centro della progettazione sociale anche il tempo, il sentire, il sapere della Cura. Il suo incessante mutare, il nostro incessante imparare. In fondo, questo è ciò che proviamo a fare con le Accademie.

Featuring Recent Posts WordPress Widget development by YD