Un modo tendenzioso per conoscere, dalla parte del pubblico
di Ghisi Grütter
Questo è il secondo volume di Al cinema con l’architetto, pubblicato lo scorso anno, con la stessa casa editrice. L’idea è stata quella di pubblicare un aggiornamento annuale delle varie recensioni elaborate, confezionando una sorta di “cofanetto” contenente anche un commento scritto ogni volta da uno studioso diverso.
Il mio interesse per il cinema risale agli anni ’60 e ’70, quando i mezzi d’informazione visiva erano scarsi e la conoscenza delle città era filtrata dal cinema diventando una prerogativa, quasi esclusiva, dei cinéphiles. A tutt’oggi utilizzo il cinema in maniera tendenziosa, cioè come uno strumento per conoscere realtà sociali e urbane diverse. Solo recentemente, grazie all’interattività della rete, ho cominciato a scrivere i commenti sui film “dalla parte del pubblico”, tanto che adesso due periodici on line (“DeA” e “Tre righe, le notizie, i protagonisti”) ospitano, più o meno settimanalmente, le mie recensioni. Nel secondo volume ho raccolto i commenti dei film visti in quest’ultimo anno, pertanto, la scelta dei titoli, lungi dall’essere esaustiva, rispecchia principalmente i miei gusti personali.
Il primo a parlare è stato Mario Panizza. Ha sostenuto che per capire realtà differenti bisogna comunque averle studiate prima e ha messo a fuoco l’idea di cinema militante. Partendo dalla recensione del film Io, Daniel Blake di Ken Loach del 2016, ha posto l’accento sui tre punti che ho individuato come i mali di oggi: la tecnologizzazione, la burocrazia e la privatizzazione, a cui lui vorrebbe aggiungere anche la “democrazia diretta”. Ha inoltre evidenziato una recensione su cui non concorda del tutto: a proposito del recentissimo Dunkirk di Christopher Nolan, ho scritto che nel film il dialogo è quasi nullo, poiché la vera protagonista è la guerra. Mario Panizza invece ha evidenziato i limiti del film in quanto il regista non ha posto sufficiente attenzione all’inquadramento storico di una battaglia così importante. In effetti alcuni critici cinematografici hanno constatato che il film è più una “spettacolarizzazione della guerra” che non un film sull’evento storico.
È poi intervenuta Letizia Paolozzi che ha affrontato il tema della differenza delle percezioni che si possono avere di un film. Lei e l’autrice, ad esempio, sono “spettatrici compulsive” che amano stare nella sala buia, ma che, pur sedute vicino, traggono spesso suggestioni diverse dal film. Ciascuna evoca, immagina, ricorda, cose diverse stimolate dalle immagini e dalle storie narrate. Il cinema, dunque, non riproduce ma produce una realtà che è insieme la vita e l’apparenza della vita. Afferma inoltre che, mentre io seguo i soggetti e lo spazio in cui vivono, lei nei film segue il puzzle dei rapporti fra i sessi e di come siano raccontati. Letizia ha quindi parlato del ruolo della donna nel cinema. Fin dalle origini le donne sono state un oggetto importante del film, ma solo recentemente le donne non sono più un oggetto di cui si parla, bensì un soggetto parlante come, ad esempio, negli ultimi film sono le due protagoniste di Sole, Cuore, Amore di Daniele Vicari o Lady Macbeth di William Oldroyd, oppure le varie donne (rivali ma anche complici) de L’inganno di Sofia Coppola.
A tale proposito ho aggiunto che sia in Sole, Cuore, Amore che in Maria per Roma, di Karen Di Porto, le protagoniste svolgono delle attività che sono poi alcune “nuove professioni” d’oggi. Nel primo film Vale è una performer che crea spettacoli che inventa, a cavallo tra la danza, la recita e il mimo, e che interviene assieme a un’amica, in alcuni spazi urbani suggestivi. Nel secondo film Maria è una key-holder, cioè colei che, nel centro storico di Roma, mostra i bed-and-breakfast e le case-vacanza agli inquilini e ne incassa gli affitti per conto dei proprietari.
È poi intervenuto Franco Purini che ha sostenuto che un film, come peraltro qualsiasi esito di una scrittura artistica, presenta tre livelli di significato che si stratificano e si intersecano. Il primo è il significato referenziale diretto, vale a dire ciò che un film racconta, ovvero la trama, la relazione tra i personaggi, ciò che accade loro e tra di loro. Secondo il linguista e antropologo russo Vladimir Propp le trame si possono comunque ricondurre a poche famiglie. Il secondo è il piano metaforico, cioè la trasposizione delle vicende narrate nella sfera allusiva e in qualche modo implicita delle loro valenze simboliche. In questo secondo livello i personaggi, ma anche i paesaggi, le città e gli edifici, sono emblemi di senso, paradigmi esistenziali, modelli ideali. Il terzo livello, quello autonomo, concerne il senso estetico di un film, la sua essenza artistica, la sua forma. Un livello nel quale l’opera si manifesta come un complesso di relazioni compositive nel quale, tutto si tiene all’interno di una superiore unità semantica. Relazioni compositive che trascendono e unificano i due precedenti livelli di significato.
Purini ha poi aggiunto una notazione – che meriterebbe un intero seminario a parte – sul modo di recitare degli attori che definisce di due tipi contrapposti: il metodo Stanislavskij pone alle basi dell’arte dell’attore il concetto dell’immedesimazione, ripreso poi da Leo Strasberg nel suo Actors Studio, dove chi recita entra completamente nel ruolo del personaggio interpretato e vi si “incarna”; mentre il metodo opposto si deve allo studio dell’opera di Bertolt Brecht, che invece basa la tecnica recitativa sulle capacità di straniamento.
L’ultimo intervento della giornata è stato quello di Vieri Quilici, da sempre impegnato nell’affrontare la pluridisciplinarità tra le arti, avendo promosso in passato vari workshop su “Architettura e…” e perfino su “Architettura e Musica”. Ha sostenuto che ciò che la macchina da presa rivela passando da un’inquadratura all’altra, è un po’ come quello che vede l’occhio di un osservatore mentre attraversa un’opera o uno spazio architettonico, sia esso un ambiente interno o uno esterno più o meno dilatato. A parte la questione dibattuta riguardante l’autonomia dei linguaggi nelle diverse discipline, Quilici non può eludere la domanda di fondo: si tratta solo di una contiguità tecnica di lavoro sull’immagine o di qualcosa di più specifico e significativo? V’è un punto di contatto, un elemento fondamentale che li accomuna: la questione del “tempo” e della “durata”. Come non notare, infatti, un’analogia tra le sequenze cinematografiche, con una loro specifica misura temporale e il tipo di montaggio, con la durata dei “percorsi” che, stando all’intenzione architettonica, guidano l’utente nell’attraversamento di un’opera?
A proposito di montaggio come valorizzazione dell’artificio, ho ricordato un recente film di Terence Malick (che non mi è piaciuto), Song to Song, dove il regista ha girato ben otto ore senza una sceneggiatura precisa, per poi costruire il film con il montaggio, una vera e propria post-produzione. Si sono conclusi i lavori con un brindisi e continuando la discussione in maniera informale.
Il cinema è vivo e lotta insieme a noi ( con molte donne…)
di Letizia Paolozzi
Quando penso a una città come Roma così tradita e vilipesa mi dico che dovrei andare a vivere in campagna o davanti al mare. Poi mi immagino senza poter andare al cinema e dal momento che sono una addicted di immagini in movimento rinuncio al progetto.
Sarà per questo legame basato sulle immagini che l’amicizia per Ghisi Grutter si è saldata nel tempo?
Noi due possiamo essere definite spettatrici compulsive. Ci piace stare chiuse in una sala buia e seguire ciò che la macchina da presa del regista ci vuole mostrare: il corvo di Uccellacci e uccellini, la moquette esagonale del corridoio di Shining, la nuca di Belmondo al volante in A Bout de souffle.
Eppure, se queste immagini che seguiamo, sedute vicine, sono le stesse, non producono su di noi lo stesso effetto.
Prendiamo La Corazzata Potemkin. Una di noi aspetta l’occhio della madre, la carrozzella col bambino, gli stivali dei cosacchi, l’altra si crogiola con il mito della Rivoluzione russa del 1905 una di noi ripete con Paolo Villaggio “E’ una cacata pazzesca “ l’altra pensa agli Intoccabili di Brian de Palma.
In fondo la meraviglia del cinema è questa: che è capace di mescolare ricordi identità storie biografie, tic, nevrosi. Il cinema non riproduce ma produce la realtà. Una realtà che è insieme la vita e l’apparenza della vita.
Naturalmente, bisogna andare a vedere un film (almeno io faccio cosi) in modo innocente. Aspettando imprevisti, rivelazioni, devianze, colpi di scena grazie a un deus ex machina che tira i fili.
La spettatrice innocente va al cinema accettando di cadere nella rete, pronta a essere fatta prigioniera sapendo in partenza che il cinema è un artificio, ma credendolo più vero del vero.
Al tempo degli antipatici droni e dei magniloquenti effetti speciali, è bello essere innocenti. Dichiararsi pronte alla rappresentazione di un tavolo nel film Viaggio a Tokyo di Ozu oppure del bacio tra Ingrid Bergman e Gary Cooper in Per chi suona la campana.
In fondo, la rappresentazione somiglia al famoso tavolo di Marx che, una volta trasformato a oggetto d’uso in oggetto di scambio, non solo sta con i piedi per terra ma di fronte alle altre merci si mette a testa in giù e sgomitola dalla sua testa dei grilli più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.
E’ veramente un arcano il cinema.
Non solo perché, come diceva Orson Welles, la macchina da presa è un occhio e un orecchio, ma perché è il nostro sguardo, la nostra testa.
Ghisi Grutter è un’architetta, amante delle città, delle strade, delle piazze, delle case. Nelle sue recensioni – ha ragione Vieri Quilici – ci ritroviamo sempre in una situazione di tipo duale: tra soggetti e spazio in cui vivono.
Se Ghisi segue i soggetti e lo spazio in cui vivono, io costruisco il puzzle del rapporto tra i sessi, del modo in cui vengono raccontati. Non arrivo al punto di bassezza di una mia amica che respinge un bel film come Dunqirk perché non ci sono donne ma anche a me interessa soprattutto essere traghettata sulla scena delle relazioni.
E su questa scena c’è da tempo interesse per la protagonista. Il trenta per cento del cinema mondiale aveva nello scorso 2016 protagoniste femminili. E non so se vengono contate le attrici registe tipo Jodie Forster o Angelina Jolie che addirittura fa Tom Ryder e film di impegno umanitario oltre che essere ambasciatrice dell’Onu.
Segnalo che alla manifestazione del 25 novembre a Roma, una delle canzoni più gettonate era Anna dai capelli rossi. Canadese, manga, famoso cartone animato
Comunque, la donna è sempre più spesso il motore dell’azione. Il cinema sin dalle origini ha fatto parlare le donne; quelle che nella società erano invece “le silenziose della storia” (Michelle Perrot).
La differenza è che oggi le donne non sono più un oggetto di cui si parla ma un soggetto parlante.
In alcuni film di quest’anno, dei quali scrive Ghisi, la gerarchizzazione maschile-femminile e la subordinazione delle donne è meno visibile. Da questo punto di vista indicativo è il film di Sofia Coppola L’Inganno con quel tontolone di Colin Farrell che quando si mette in testa di dividere il gruppo femminile comportandosi da macho viene prima mutilato e poi avvelenato di modo che le donne possano ricostruire il loro sodalizio.
Oppure sono esemplari le protagoniste di Cuori puri di Roberto De Paolis e Daniele Vicari con Sole Cuore Amore, Elle di Verhofen a Lady macbeth di William Oldroid.
Il cinema cambia grazie alle donne?
Domanda senza risposta anche perché c’è chi sostiene che il cinema sia agli sgoccioli per via degli strumenti di comunicazione che lo vengono sostituendo.
Allora, potrebbe sembrare che il primo e questo secondo volume della nostra architetta siano un tentativo controcorrente di difenderlo?
Tuttavia, proprio la quantità di discorsi aperti da Ghisi Grutter ci rassicura: il cinema è vivo e lotta insieme a noi. E comunque abbiamo le serie che ne sono una degna reincarnazione.