Ogni volta che si arriva a un tornante drammatico della politica della sinistra, si alzano lamenti sull’assenza delle donne. Perché non c’è una donna tra i capi della scissione?, si chiede qualcuno. Perché, da una parte e dall’altra, non c’è una donna in posizione importante – leader, mediatrice, competitor? La voce delle donne non si sente, se non, come in questi giorni, per un appello all’unità, totalmente destituito di significato politico. Nonostante tante lotte, tanti passi avanti, nonostante gli alti numeri in parlamento e la presenza di bravissime ministre, le donne della sinistra non sembrano potersi o sapersi intestare un’azione politica.
E questo, nturalmente, stupisce. Ma ci si dovrebbe chiedere perché. La politica è tutto tranne che casuale; in genere le ragioni ci sono e si vedono. Basta cercarle. Allora proviamo a fare alcune ipotesi sul silenzio delle donne della sinistra. Negli ultimi anni del Pci le dirigenti di quel partito, seguendo l’onda del femminismo, lavorarono molto per sviluppare una politica autonoma. Da Seroni a Trupia a Livia Turco, fu un crescendo di iniziativa che ebbe notevoli risultati, sia in termini di presenza sia, soprattutto, in termini di politiche. E anche di cultura politica: l’elaborazione delle donne – che riprendeva importanti ricerche soprattutto di area sociologica – fu allora qua e là contestabile, ma certo coraggiosa e significativa. Nelle elezioni del 1987 si produsse, con grande scandalo del gruppo dirigente «maschile», un risultato paradossale: un notevole successo delle candidature femminili dentro una generale sconfitta del partito. Invece di scandalizzarsi, i maschi avrebbero fatto bene a seguire il loro esempio: parlando alla base del partito, ma contemporaneamente a gruppi di opinione importanti (in quel caso, la galassia della nuova intellettualità femminile). Poi arrivò la Bolognina e la svolta di Occhetto.
Il gruppo dirigente femminile che era stato protagonista di quella stagione si spaccò e perse la sua iniziativa politica, ripiegando su posizioni ambigue e spesso puramente emotive. Tuttavia molte donne furono allora, da una parte e dall’altra, presenti con autorità. Il declino è cominciato dopo, quando le donne del partito della sinistra, nelle sue varie declinazioni, misero al centro della loro iniziativa politica la questione delle quote. E lì rimasero. Le quote sono un obiettivo legittimo, ma non possono surrogare un progetto politico che non c’è. Da vent’anni tra le donne del centrosinistra si parla solo di numeri e percentuali. Invece di spingere avanti la cultura politica e l’innovazione strategica, c’è stato un ripiegamento su una cultura vecchia e già sconfitta dalla storia. Le donne sono diventate le vestali degli aspetti deteriori del post-comunismo: la retorica dei buoni sentimenti, l’incapacità di fare i conti col passato, l’ambiguità delle prospettive politiche, mentre trovavano la loro identità solo nel tema delle quote. Inutile dire che questo era anzitutto un modo per aggregare e garantire gruppi dirigenti, in assenza di vera battaglia politica. Ma senza battaglia politica, senza elaborazione culturale, senza innovazione strategica, non si formano leadership. E senza leadership femminile, senza proposte politiche forti e radicali, non si rompe l’assetto formidabile della complicità e conflittualità maschile, che oggi si dispiega sotto gli occhi attoniti dell’opinione pubblica. Inutile stupirsi, dunque, se la politica, questa politica spesso autolesionistica, continuano a farla gli uomini.