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Microcritiche / Un Blade runner da camera

25 Luglio 2016
di Ghjisi Grütter

imgresZERO THEOREM – Film di Terry Gilliam (2013). Con Christoph Waltz, Mélanie Thierry, Matt Damon, Lucas Hedges, Tilda Swinton, Ben Whishaw –

In generale non sono un’appassionata di fantascienza, ma ho deciso di andare a vedere The Zero Theorem avendo letto delle buone recensioni e ottime cose sul suo regista, ormai settantacinquenne, che propone una sorta di vintage science fiction.
In effetti, il film non è affatto male essendo contemporaneamente divertente e malinconico, ironico e catastrofico e sembrerebbe essere una versione pop di Brazil, film cult di Terry Gillian del 1985.
Qohen Leth (un eccezionale Crisopher Waltz) in un’ambientazione distòpica, parla di sé in prima persona plurale e vuole a tutti i costi lavorare in casa, perché aspetta una fantomatica telefonata che dovrebbe spiegargli il senso della vita. Così ottiene dal Management (Matt Demon) di poter lavorare alla risoluzione di una misteriosa formula matematica: il “Zero Theorem” senza dover mai uscire da casa, dotandosi di un iper-computer, ma monitorato da varie micro-spie piazzate in punti strategici (nella testa del Cristo in croce ad esempio). Ci lavorerà diversi mesi senza arrivare a risolverlo, ma se lui non vuole uscire nel mondo – rappresentato peraltro variopinto, allegro e mascherato –il mondo vuole entrare da lui: il dott. Shrink-Rom (Tilda Swinton) è un’App strizzacervelli con cui interagisce tra un lavoro e uno squillo di telefono, Bainsley (Mélanie Thierry) è una deliziosa ragazza (replicante?) che lo vuole aiutare e con la quale, lentamente ma immancabilmente, nasce un amore reale iniziato come realtà aumentata. Bob (Lucas Hedges) è il geniale adolescente figlio del Capo che, essendo nativo digitale, lo aiuta nel solving problem informatico.
Il film The Zero Theorem mi ha evocato Blade Runner del 1982 nell’ambientazione anche se non ha l’imponente struttura urbana di quel film, anzi, essendo il protagonista agorafobico, è girato prevalentemente negli interni. Ma è proprio lì che il futuro si mostra pieno di memorie: la casa di Qohen Leth è una vecchia chiesa sconsacrata mentre gli uffici della Mancom sono situati in una sorta di piccolo Grand Central newyorkese. Da un lato c’è il vero e proprio riuso di spazi adibiti a fini diversi, dall’altra ci sono le sovra-imposizioni dell’onnipresente digitale, le pubblicità mobili: varie immagini in movimento. Sembrerebbe che la città plurale e post-moderna coincida con quella animata e bidimensionale sopra le vecchie strutture tridimensionali liberty, déco o, meglio, in stile eclettico. Così pure in Blade Runner appariva dal passato il pianoforte con i vecchi spartiti tradizionali e le foto incorniciate.
Le primissime scene degli esterni invece evocano il film Quinto Elemento (non a caso sia in Blade Runner sia in Quinto Elemento c’era lo zampino dell’artista francese Möbius) in una sorta di fumetto rétro.
l temi dominanti sono il nonsense dell’esistenza, la fede o l’assenza di essa e cioè “il buco neo”, ma la soluzione desiderata è comunque la fuga così come anche Rachel e RicK in Blade Runner.

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