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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Narrative di guerra/ Il dolore

17 Dicembre 2014

L’articolo è stato pubblicato su www.olimpiabineschi.it

Per giorni ho tardato a scrivere di “Homeland”, la serie tv americana seguita da milioni di telespettatori, che ha vinto numerosi premi sin dalla sua prima edizione. E’ una storia di agenti della CIA in Pakistan, di caccia ai talebani, di stereotipi e di errori di edizione che farebbero ridere ogni bambino pakistano. Ma gli attori sono bravi e la sceneggiatura curata, e quando un prodotto ha così tanto successo parlarne male non sta bene, è un esercizio inutile. “Homeland” per ovvie ragioni non è trasmesso in Pakistan, ma se ne parla e molto sui social network, soprattutto per mano dei migranti che la vedono da altri paesi.

Ho tardato e ho sbagliato, perché ieri la realtà ha superato la fiction, come spesso accade. La strage talebana nella scuola di Peshawar ha ucciso 132 bambini e 9 adulti. I talebani – lo abbiamo già scritto in passato – stanno riscrivendo le loro modalità di comunicazione, contribuendo a disegnare una nuova narrativa di guerra. Mentre i terroristi asserragliati nella scuola bruciavano vive alcune maestre di fronte ai bambini, i loro “portavoce” dall’esterno rivendicvano l’azione, una riposta all’offensiva militare “Zar-e-Azb” (che significa più o meno a fil di spada) in Nord Waziristan, dove una buona parte dei talebani vive e prospera. Vogliamo proviate lo stesso dolore che proviamo noi quando sterminate le nostre famiglie, hanno detto.

Quando si vive tra due mondi, il cuore si strazia a stare lontani quando una strage di questa portata colpisce chi ti è caro e più in generale un paese a cui inspiegabilmente ti sei affezionata troppo. Ho passato la giornata di ieri correndo dietro ai social network, alle news in tv, telefonando agli amici a caccia di ulteriori dettagli inutili, che certo non contribuivano a farmi stare meglio. Ma questa sono io, e in questo momento non conto davvero.

Quel che conta è capire cosa accade. Accade che in Pakistan c’è un governo minacciato dall’opposizione di Imran Khan, leader del PTI, che da giugno sta guidando (con alterne vicende) una protesta che non ha precedenti nel paese: sit in che durano mesi, serrate di negozi e attività nelle più grandi città del paese, comizi oceanici che a volte portano a casa qualche morto, come è successo la scorsa settimana a Faisalab, a causa di scontri fra militanti. Anche un solo colpo di pistola non è cosa da poco in Pakistan, un colpo di pistola significa il panico, significa l’allerta e lo scatenarsi di azioni di risposta da parte delle forze dell’ordine di un dispiegamento di forze anche rischioso, perché potenzialmente può provocare altre morti. Imran chiede alla commissione elettorale di riaprire le urne di alcuni seggi delle elezioni dello scorso anno, dove i voti sarebbero stati truccati. E invita a scrivere sulle banconote “Go Nawaz Go!”, il nome del premier.

Ma sono in molti a dire che il suo non è un progetto politico solido e anche se ha molti proseliti, è difficile immaginare cosa potrebbe fare il PTI una volta al governo.

E poi ci sono i militari, che si sono offerti di fare i mediatori tra Imran e il governo nei momenti più difficili, che hanno deportato un milione e mezzo di persone dal Nord Waziristan nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa per l’operazione militare che avrà pure una sua efficacia, ma che non riesce a impedire a un gruppo armato di entrare in una scuola per figli di militari nel centro di una città e fare una strage.

E poi ancora i servizi segreti: sono dovunque, e allora come è possibile che non riescano a intercettare  un rischio così elevato? I giornali di oggi riportano che la polizia del Khyber Pakhtunkhwa aveva nei giorni scorsi evidenziato l’allerta e invitato le scuole a rinforzare le misure di sicurezza.

Infine, non da ultimi, la popolazione pakistana che difende gli integralisti. Non sono pochi, li nascondono nelle case, li foraggiano, i più ricchi li finanziano. Durante gli anni del terrorismo in Italia le perquisizioni e le irruzioni nelle case erano all’ordine del giorno, l’obbligo di portare un documento di riconoscimento con sé è durato per anni. Perché nessuno parla di questi supporter di morte?, ha postato ieri il mio amico T. su FB. Già perché? Noi, che siamo stati per anni la terra dell’omertà mafiosa, abbiamo impiegato decenni per uscire dal silenzio, e ancora non ci siamo riusciti completamente. Da oggi, ancora hanno scritto in molti, chiunque si chiami talebano (o pashtu in farsi o pathan in urdu, termine che non fa solo riferimento ai terroristi, ma a una vasta popolazione che vive tra Pakistan e Afghanistan) non sarà più visto come un comune cittadino, ma saranno tutti inevitabilmente accomunati alla visione orrenda e raccapricciante di 132 bare bianche.

Monica Luongo

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