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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

L’esercizio dello Stato (paradossi politici italiani)

4 Maggio 2013
di Alberto Leiss

Nel salone dorato di un palazzo del governo un enorme coccodrillo – un Caimano? – inghiotte una bella donna nuda. In realtà è lei che si offre, si mostra, e poi si dirige come attratta da un magnetismo irresistibile nelle fauci del mostro.

E’ un sogno, un incubo che turba il sonno del Ministro. E’ la scena che apre l’omonimo film francese, il cui sottotitolo (era il titolo originale) suona “L’esercizio dello Stato”. Un esercizio, un servizio al quale si devono sacrificare bellezza, amore, desiderio profondo. Ben presto la storia ci racconta che l’esercizio del potere allontana anche dalla capacità di dire e di dirsi la verità.

Il Ministro dei trasporti è un riformista moderato, non vorrebbe privatizzare le stazioni ferroviarie. Ha un capo di gabinetto bravissimo, un grande burocrate della alta scuola francese, che la pensa come lui. Ma saranno sconfitti. Il film è di due anni fa e ritrae, vista dalla Francia, la crisi economica che ci attanaglia. Il conflitto sociale si dirige anche qui contro la “casta” dei politici. Governare significa correre ogni giorno freneticamente nell’auto blu di servizio, sfinirsi di telefonate al cellulare, farsi dettare dalla abile portavoce e dal ghost writer ciò che è opportuno dichiarare agli onnipresenti media, quale cravatta indossare in caso di incidente grave, gli occhi puntati al prossimo sondaggio.

A un certo punto diventa a suo modo centrale la figura di un disoccupato, un “uomo del popolo”, che sostituisce l’autista del Ministro (in congedo di paternità) partecipando a uno stage che lo Stato offre a chi ha perso il lavoro. Sarà il testimone muto del dramma quotidiano di un potere politico che perde forza e autorità: assediato da un lato dai nuovi poteri finanziari privati, dall’altro dagli operai in rivolta, e eroso dalla corruzione interna.

Nelle stanze di questo potere sono tutti uomini: le donne sono presenze di fredda, ancillare competenza. L’unica a dire in faccia al Ministro la sua rabbia contro la “casta” e la politica sarà la moglie – una giovane e fiera sarda – del nuovo autista, testimone sempre muto.

La macchina del ministro deve correre, correre sempre più veloce, anche imboccando per guadagnare tempo una nuova autostrada non ancora inaugurata, libera dal traffico. Una scelta fatale. C’è un terribile incidente, in cui l’autista-proletario perde la vita. Il Ministro, pieno di giustificati sensi di colpa, vorrebbe dire finalmente una sua verità, umana e politica, ai funerali. Ma preferirà recitarsela sottovoce, senza dichiarazioni pubbliche comunque inopportune. A quell’uomo silenzioso, alieno, si era in qualche modo affezionato. Era lo specchio del suo fallimento?

Il neo presidente del Consiglio italiano Enrico Letta ha affermato nel suo discorso programmatico di voler dire la verità, di cui ha evocato addirittura il valore “sovversivo” (chissà se pensava alla nota frase di Gramsci: “la verità è sempre rivoluzionaria”).  Nelle sue parole, a onor del vero, c’è stato ben poco di “sovversivo”. E nemmeno qualcosa immediatamente capace di riempire quel vuoto di verità e di comunicazione che si è creato tra “governanti” e “popolo”, come tra il Ministro e il suo sfortunato autista.

Piuttosto il suo elenco di cose da fare evidenzia ai miei occhi un primo paradosso: sembra vietato dirlo ma alcuni propositi in realtà sono condivisi da tutti i partiti, grillini inclusi, e dalla stragrande maggioranza degli elettori: cambiamento dell’IMU, interventi per l’occupazione e la cassa integrazione, riapertura del credito alle imprese, una qualche forma di reddito minimo garantito… e poi la “riforma della politica” di cui tanto si è parlato: taglio netto dei parlamentari, basta col bicameralismo perfetto, eliminazione delle Province, spazio al senato delle Autonomie, riduzione degli stipendi della “casta” ecc.

Per non dire che persino in alcune aree della sinistra tradizionalmente più ostile si comincia a considerare l’opportunità di regolare – magari con un modello “alla francese” – il presidenzialismo di fatto ( o “preterintenzionale”,  come ha aulicamente osservato Massimo Cacciari) che la rielezione di Napolitano, ma anche le forti passioni più o meno reticolari per Rodotà,  hanno messo in scena.

Infine, chi potrebbe contestare l’intenzione di spostare – almeno un poco – l’asse economico europeo, e quindi italiano, dall’austerità alla crescita e a una maggiore equità sociale?

Però il governo di “unità” spacca ugualmente il paese: almeno due terzi di chi ha votato voleva un “cambiamento”, affidato a Grillo, Vendola e Bersani. Ma loro, pur avendolo promesso e pur contando insieme un’ampia maggioranza parlamentare, non sono riusciti a mettersi d’accordo.  La rigidità di Grillo, la caparbietà e gli strani zig zag di Bersani hanno condotto al Napolitano bis e al governo Letta: è la “restaurazione” (“intelligente”, concede Vendola)! Altro che “cambiamento”!  Non si può certo credere che sia assicurato dalla più giovane età e dal maggior numero di donne (ma tutta la politica non dovrebbe interrogarsi più radicalmente sul senso comune che attribuisce valore al mutamento generazionale e al protagonismo femminile?).

Ma è “restaurazione” soprattutto perché il vero vincitore – dicono in molti – è Berlusconi.  Per Barbara Spinelli è lui il “Golia” evocato in modo un po’ stravagante dal nuovo presidente del Consiglio. E questa volta avrà la meglio sul “Davide” che lo affronta privo di armatura.  Concorda Rodotà: tutto il potere è tornato al Caimano!

Per me è un secondo paradosso.  Gli antiberlusconiani più determinati rischiano di restare accecati dalla figura del Cavaliere. Che si agita tanto perché ha paura dei processi e sa di essere un politico fallito (nonostante sia riuscito a restare in sella nel suo partito, pur perdendo 6 milioni di voti): basta leggere un po’ di giornali stranieri per rendersi conto che la cosa è discutibile e discussa. Aggiungo una prima bestemmia: non credo sia tecnicamente e giuridicamente possibile, ma se si trovasse una soluzione per salvarlo dalla galera e metterlo a riposo, sarebbe poi così male per tutti noi?

Terzo paradosso. Politici e media giocano irresponsabilmente con le parole, basta vedere quante ne sono state dette a sproposito sull’uomo che ha sparato ai due carabinieri a Montecitorio.  Non pochi intellettuali si esercitano da anni nel dipingere una “mutazione antropologica” che avrebbe inebetito il popolo. Eppure spesso elettori e cittadini, quando possono esprimersi, dimostrano maggiore buon senso e lungimiranza di chi dovrebbe guidarli. Esempio: la consultazione in rete dei grillini per il Quirinale. In un modo o nell’altro sono usciti nomi di persone tutte molto rispettabili, e almeno tre candidature – Bonino, Prodi, Rodotà – potevano consentire almeno il tentativo di un accordo col Pd, e nel caso di Bonino potenzialmente ancora più ampio. Non capisco perché Bersani non ci abbia provato prima di far scegliere a Berlusconi il nome di Marini…

Quarto paradosso. Il Pd ha sbagliato tutto, è caduto nell’imboscata dei “traditori” interni affossando Prodi, ha fallito, deludendo elettori e militanti e si dissolverà… Eppure errori, divisioni e lacerazioni sono anche leggibili come sintomi di una singolarissima vitalità, certo spinta sull’orlo dell’autodissoluzione.  Un caos incredibile che però alla fine trovo meno insopportabile della rigidità grillina e della subalternità all’unico padrone della destra. Ecco una seconda bestemmia: la sinistra data complessivamente per spacciata dal risultato elettorale e dall’esito del pasticcio quirinalizio potrebbe anche approfittare della eccezionale situazione che si è determinata. In fondo ha figure che le appartengono alle presidenze di Camera e Senato, a capo del governo, e – piaccia o non piaccia – alla presidenza della Repubblica. (Segnalo che nei primi sondaggi dopo la formazione del governo il Pd guadagna quasi 2 punti, Grillo è in calo e, se pur di poco, anche il Pdl…)

E qui siamo – per ora – all’ultimo paradosso. L’uomo dell’unità nazionale e delle “larghe intese”, che si è battuto una vita per spingere il vecchio anomalo Pci verso lidi socialdemocratici europei, si vede definire dalle biografie che si moltiplicano come “l’ultimo comunista”, che ha preso il potere come un monarca e – forse – ha salvato il paese… esercitandolo al servizio dello Stato.

 

 

 

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