Lunedì 22 aprile 2013 alle ore 11.59
Giorgio Napolitano è stato l’undicesimo presidente della Repubblica, il primo proveniente dalla tradizione comunista, il terzo tra quelli riferibili alla sinistra, che furono, prima di lui, Saragat e Pertini.
Il 19 aprile di quest’anno è stato rieletto al Colle grazie all’accordo tra Pd, Pdl e Scelta Civica ed è così diventato il dodicesimo presidente della Repubblica. Un bis storico senza precedenti, che solleva seri dubbi sui profili costituzionali dell’intera vicenda e conferma l’avvenuto logoramento degli assetti istituzionali: sia nella ratio di fondo dei meccanismi di funzionamento dell’ordinamento democratico – che significa oggi il concetto di Repubblica parlamentare? – sia nell’applicazione concreta delle sue regole e procedure. Che cos’è un Parlamento che non può fare altro che sancire ciò che in altre sedi si decide, e si decide per accordi notturni tra le nomenclature, passando sopra alle ragioni di fondo che hanno portato più di metà dell’elettorato – più o meno i due terzi, sia pure “da” e “per” ottiche diverse, a votare contro l’eventualità di quelle decisioni?
Un ufficio notarile più che un’assemblea rappresentativa, dobbiamo dire, o forse solo un teatro degli inganni, utile a nascondere sotto il tappeto del formalismo di regole e procedure la sostanza di pratiche ademocratiche, di riduzione ad accordi di nomenclature autoreferenziali la pur spesso necessaria dialettica istituzionale tra forze politiche. Che è tuttavia ormai tutt’altra cosa.
Nella notte degli inganni tra il 18 e il 19 aprile, la materia dell’incontro col presidente uscente non è stata eminentemente la richiesta di salvataggio da parte dei partiti: del Pdl che vince, davvero alla grande, la partita, dopo aver perso le elezioni, e del Pd che perde tutto, dopo averle quasi vinte, nonché del gran cerimoniere del trasversalismo politico, salvifico per definizione, SceltaCivica. La materia è stata tutta incentrata sulle condizioni dettate dal presidente uscente e in base a quali condizioni si è poi reso disponibile: il grande accordo tra tutti, che manda sotto scacco definitivamente il Pd come portatore di qualche speranza di cambiamento, obbligandolo ad acconsentire a un governo dove la magna pars l’avranno i saggi di Napolitano con le loro cartelline di note arcinote, lasciate coscienziosamente sulla scrivania del presidente.
Non sarà per caso che Napolitano, nelle sue prime esternazioni pubbliche dopo la rielezione del 19 aprile, abbia fatto sapere alla stampa di non gradire laparola “inciucio”. Si tratta sicuramente di parola sgradevole sia per suono sia per densità di demagogia antisistema che su di essa si è sedimentata nel tempo, al punto di indurre a considerare tutti gli accordi e le mediazioni in politica sempre come un immondo accordo per innominabili interessi. Ma la storia degli ultimi vent’anni è piena, ahinoi, di vicende che confermano questa torsione negativa della prassi politica: il berlusconismo egemone e l’antiberlusconismo sterile di alternativa se ne sono egualmente nutriti. O hanno chiuso gli occhi.
Quella parola, che personalmente aborro e evito accuratamente di usare, è diventata nella percezione popolare quella che meglio dice la cosa: l’incontro sinergico tra un significante sgradevole al suono e un significato ripugnante ai sentimenti di chi ancora spera nella politica oppure della politica è disgustato. Inciucio, appunto. Rieducazione della grammatica politica e della sua semantica? Necessaria come l’acqua e il pane, a condizione di far sapere intanto al presidente che quella parola non è sottoponibile, per cadere in disuso, alla censoria moral suasion presidenziale e che ben altro ci vorrà perché ciò avvenga, se mai sarà possibile che il sentimento popolare non ne abbia più bisogno per esprimere la sua indignazionedi fronte a certe pratiche diganti.
Ma forse già da domani una schiera di giornalisti e conduttori servizievoli si metterà all’opera per mascherare con aulici giri di parole la cosa a cui la parola allude e che con ogni probabilità sarà al centro della scena nei prossimi mesi. Da Monti a Monti, da Berlusconi, che ce la fa sempre a sopravvivere, a Berlusconi, che genialmente sta fermo aspettando il bottino, dopo aver indossato un giorno gli abiti dello statista paziente e il giorno dopo quello dell’agitatore impaziente.
La rielezione di Napolitano è stata la conseguenza di una devastante crisi politica della sinistra, del Pd più precisamente, che è andata in scena con una crudezza tanto feroce quanto imprevedibile per le forme estreme in cui si è manifestata.
La crisi dell’ordine maschile, la fragilità umana di uomini alla deriva, l’impotenza di un potere privo di qualsiasi parola che faccia ordine e senza alcuna giustificazione che non sia quella narcisistica dell’impotenza del potere; e poi i tradimenti, le menzogne, i nascondimenti, tutto in quelle ore cruciali sotto la luce dei riflettori e tra facce sbalestrate dall’angoscia. Un reality della crisi politica incarnata in quelle facce ridotte a fantasmi, corpi in crisi alla ricerca di un ubi consistam che ancora una volta si è rivelato il corpo del Padre, come auspicava qualche settimana fa da Repubblica Eugenio Scalfari, chiedendo a Napolitano di non abbandonare l’Italia, solo lui essendo in grado di salvarla
Le radici della crisi del Pd sono antiche, stanno nell’intreccio di contraddizioni non risolte che l’unificazione di due ceppi culturali così diversi ha alimentato nel tempo. Ma da Giorgio Napolitano la crisi del suo antico partito ha ricevuto non pochi incoraggiamenti, fino a sfociare nell’esito di questi giorni.
Finale di tragedia simbolicamente cruento, con ammazzamento di vari padri,in primis il segretario Bersani; finale rappresentato in ogni particolare nei compulsivi servizi fiume dell’entertainment quotidiano : quello di Enrico Mentana su la 7 da Oscar sia per la quantità di tempo che all’elezione presidenziale è stato dedicato sia per l’intreccio avventuroso che Mentana ha messo in scena, abilmente intrecciando la maratona per il Colle con la caccia agli attentatori della maratona di Boston, anch’essa in diretta dalle emittenti americane. Suspense alla grande. E’ l’audience, bellezza!
Giorgio Napolitano fu eletto la prima volta il 15 maggio del 2006,all’inizio della XV Legislatura, che era stata segnata, un mese prima, dalla vittoria del centrosinistra guidato da Prodi e si sarebbe conclusa, a metà mandato, con la fine del governo dell’Unione. Le nuove elezioni furono poi vinte da Berlusconi.
Parlamentare alla Camera, feci parte della platea dei grandi elettori che alla quarta votazione, con i voti del solo centrosinistra, elessero Napolitano. Berlusconi non ne fu affatto entusiasta.
Questa volta i voti si sono mescolati: “scelta condivisa”,”responsabilità di fronte agli italiani”, Napolitano il”presidente di tutti” e altro di questo genere. Berlusconi è il più felice di tutti.
Nel 2006 Napolitano era per me soltanto l’esponente di una cultura di sinistra lontanissima dalla mia; una cultura autoritaria, moderata, dominata dall’autonomia del “politico”.
Oggi, dopo l’intenso percorso politico fatto attraverso la massima carica dello Stato, Napolitano si presenta come il protagonista più autorevole della cultura presidenzialista che si è affermata in Italia. Nei fatti, nelle pratiche, nell’ossessione della governabilità, non ovviamente nelle argomentazioni di principio, essendo lui il garante di una Costituzione che fa del Parlamento il cuore dell’ordinamento democratico. Infatti il cambiamento di quell’ordine è il cuore delle note istituzionali dei suoi saggi.
Anche qui la lontananza è per me massima. Doppia lontananza.
Il presidenzialismo più facilmente è entrato nel senso comune proprio a causa della politicizzazione che Napolitano hai impresso al suo ruolo di capo dello Stato e per le emblematiche scelte decisioniste che ha compiuto, come tutta la vicenda Monti testimonia. Il dibattito pubblico ha banalizzato da sempre l’opzione presidenzialista, scollegandola dal tema della democrazia, della rappresentanza, dell’equilibrio dei poteri – il primo dei problemi in caso di opzione presidenzialisa – e presentandola pragmaticamente solo come una soluzione auspicabile per la “governabilità”, perché i partiti sono quello che sono,”la politica non ce la fa” e il presidente è, oggi, “l’unico all’altezza” .
Un pericoloso “fai da te” in materia di cultura politico-istituzionale che andrebbe, andrà contrastato, soprattutto in una fase come quella in cui viviamo, segnata dal declino della democrazia rappresentativa e delle istituzioni democratiche nel loro complesso, da nuovi miti a cui la crisi di sistema attribuisce valore salvifico e liberatorio in senso assoluto e in una dimensione totalizzante – la Rete innanzitutto – con tutte le operazione di manipolazione che il “sistema rete” rende ovviamente possibili. Senza dimenticare la semplificazione estrema a cui è ridotto lo scenario del confltto nella società: lo scontro tra il vecchio e il nuovo, dove precipitano i disagi e le rabbie più diverse. Il che rende davvero esplosive le forti spinte antisistema che caratterizzano oggi la vicenda italiana. E non solo italiana, ma intanto di questo dovremmo preoccuparci subito.
E siamo al punto di partenza,