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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

La politica della cattive maniere

15 Ottobre 2012
di Letizia Paolozzi

Da un po’ di tempo la mala education della politica viaggia sul verbo rottamare. Dico mala education perché si sta rilevando l’opposto di ciò che speravamo: curare la politica, cambiarla, trasformarla.

Anzi, il verbo rottamare aggraverà la sua crisi. Non so se vi ricordate il  film del giapponese Imamuri: “La ballata di Narayama”. Ancora nel 1860, seguendo una antica usanza religiosa e spinti dalla  sopravvivenza, i figli trascinavano sul monte delle querce, imprigionandoli in una rete, i genitori settantenni in attesa della morte.

C’erano padri e madri che accettavano la loro sorte per amore; altri che tentavano la fuga. Naturalmente né Veltroni, né D’Alema, né Rosy Bindi hanno un legame di sangue con i loro eredi. Ma la crudeltà, l’assenza di interesse per le relazioni (del vecchio che trasmette esperienza al più giovane, del maestro che aiuta l’allievo a capire il mondo, del saggio che si offre come esempio da imitare) da parte dei rottamatori fa impressione. Avranno pure scritto sul bello (“da Dante a twitter”) ma non hanno alcuna cura dei rapporti in una rete larga di persone che usano la stessa lingua, della presenza fisica: occhi, gambe, braccia di uomini e di donne, in una stessa storia politica.

Forse ormai le lingue sono diverse; forse, più probabilmente, la rottamazione dipende dal disordine maschile.

Manca il riconoscimento di autorità. Una volta, almeno nel Pci, i rapporti tra i Macaluso, Tortorella, Reichlin, Chiaromonte, Ingrao e i loro eredi portavano un segno diverso, più limpido. Anche se il coltello piantato nella schiena non mancava mai. E Natta se ne andò perché fu annunciato sui giornali (da D’Alema o da Occhetto o da Fassino?) che aveva avuto un infarto. Tuttavia, quei vecchi possedevano una maggiore sapienza nell’uscire di scena.

Adesso no. Il meccanismo si è inceppato. L’autorità è parola che si fatica a elaborare. Per questo, l’uscita di scena deve tradursi in una sorta di processo dove si respira rancore. I rottamatori di questo rancore profondo (che somiglia un po’ a quello dei nostri figli precari quando ci dicono: “ Voi avete avuto il lavoro, la pensione. A noi che mondo lasciate?”) sono gli interpreti più schietti.

Rispetto allo spettacolo cui stiamo assistendo, in passato era diversa la relazione con la politica. E con il potere. A un certo punto si abbandonava il seggio parlamentare senza per questo abbandonare la politica. Ma si andava via con un bagaglio di autorità.

Adesso, di autorità ce n’è poca in giro nelle macchine dei partiti, nelle istituzioni anche perché l’atteggiamento moralistico funziona come  maschera utilizzata per coprire la voglia di potere. Nel frattempo, la politica, assurdamente, coincide con un posto di parlamentare.

Tanto che Veltroni va a “Che tempo che fa” per annunciare di non ricandidarsi (alla sua settima legislatura). Embé, che notizia sarà mai?

Ma proprio perché è una non notizia, immagino che sia stato necessario spettacolarizzarla. Spettacolo e messinscena speculare alle centinaia di firme raccolte per chiedere a D’Alema di ricandidarsi (alla sua ottava legislatura). Come se stare in parlamento fosse l’unico luogo plausibile per praticare la politica.

Prescindendo da ciò su cui insiste il femminismo: ciò che conta, realmente, è il modo di rapportarci che abbiamo gli uni agli altri. Ma naturalmente, si tratterebbe di immaginare un’altra politica cosa che – allo stato attuale –  riesce assai difficile ai rottamati e ai rottamatori

 

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