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Chi resiste alla cura delle donne

20 Settembre 2012
di Letizia Paolozzi

Parafrasando il titolo di una raccolta di storie di Raymond Carver: “Di cosa parliamo quando parliamo di cura” la domanda potrebbe essere rivolta al Gruppo del mercoledì (di cui faccio parte). Nominare la cura significa pensare a un’economia residuale, al sacrificio femminile, alla prigione delle donne in tempi difficili oppure la leggiamo come un paradigma, una possibilità, un rovesciamento del rapporto tra i sessi, con l’ambiente, con il lavoro, con il mondo che ci circonda?

Intanto, all’orizzonte non ci sono ricette per rovesciare il segno “meno” della crisi: economia inceppata, politica inviluppata nel suo disfacimento, ambiente degradato. Si potrebbe rispondere provando a “aprire” alla cura? Nel centrosinistra (tanto per stare dalle nostre parti) non ci pensano lontanamente. Piuttosto, invocano più Keynes, più stato, anche se all’Ilva, all’Alcoa,  per sindacati e partiti il risultato è che “ha da passà ‘a nuttata”.

Ci vorrebbe una invenzione. Magari una invenzione “verde”. Qualcosa che rivoluzioni il nostro modello di vita (insieme).

Di Pietro, Vendola, Diliberto, Ferrero, Bonelli e Rinaldini della Fiom raccolgono firme per abrogare le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Il referendum non è strumento nuovo e la sua scelta (peraltro nell’anno delle elezioni i referendum non si possono tenere) appare dettata più da questioni di schieramento che dalla volontà di cambiare davvero la vita di chi lavora.

Magari è complicato rompere i recinti ideologici. Manca il coraggio. Per esempio nell’esercizio del potere, delle sue pratiche. L’unico a figurare da innovatore: mandiamo a casa i leaders inamovibili, i vecchi, i plurieletti, è stato il sindaco di Firenze. Nella semplificazione del suo manicheismo, adesso Renzi ha aggiunto un tassello: andare a pescare voti di destra in libera uscita e rottamare il ’68, anzi i vecchietti usciti dal ’68 che impedirebbero ai giovani di assumersi delle responsabilità.

Ha ragione il sindaco di Firenze? Quei “magnifici” anni furono sì intrisi di ideologia, ma funzionarono pure come corso accelerato contro le tesi ideologiche. Almeno per una parte della “meglio gioventù”.  D’altronde, se gli uomini si divisero – magari non tutti – tra chi abbracciava la carriera e chi le armi contro lo Stato delle multinazionali, le donne presero un’altra strada, libera da preconcetti (per quanto possibile).

Strada impervia che però ha portato a un accumulo di idee. E di pratiche: sulla differenza femminile, sul lavoro relazionale che può ribaltare modi e tempi della produzione, sul corpo e la sua presenza nella scena pubblica.

Se ne parlerà a Paestum. Dove il “gruppo delle femministe del mercoledì” porterà il materiale pubblicato su “Leggendaria” e altro raccolto su DeA.

Tuttavia, da ciò che ho capito finora, le resistenze esistono.

Intanto, il lavoro relazionale non produce curiosità, discussioni, scontri. Manca di riconoscimento; sembra non aver valore. Non ha valore per le organizzazioni sindacali, la sinistra socialdemocratica, radicale, riformista, giovanilista, nuovista, quella fuori dai partiti, dei beni comuni, del basic income. Escludono che possa essere agita come leva reale e simbolica in modo da colmare il vuoto di senso messo in scena quotidianamente dalla crisi. Tutt’al più, qualche imprenditore o economista “illuminato” predica il ricorso alle “cure” e capacità relazionali femminili solo in funzione di un soccorso, di un medicamento per mantenere il sempre più traballante sistema produttivo in piedi così com’è.

Ora, se la cura non ha valore, ne consegue l’inutilità di interrogarsi su eventuali proposte. Penso al contrario che assumendo questo diverso e radicale punto di vista oltre a un vantaggio simbolico si possano anche elaborare obiettivi concreti, da mettere al centro del conflitto. Dai più “semplici“: un servizio civile per i due sessi così da rimediare al “deficit di natura” e di umanità che viviamo, alle più complesse: far entrare nell’economia del welfare e del regime pensionistico, così come nel modo di produrre (come e che cosa produrre), il tempo che le donne (ma dovrebbero praticarlo finalmente anche gli uomini) danno alla cura dei legami, a quel silente “lavoro di riproduzione e manutenzione della vita” in assenza del quale il mondo non si reggerebbe.

Forse è il neoliberismo, l’affermazione per ultimo in ordine di tempo di Mitt Romney che “bisogna farcela da soli”, ad aver colpito al cuore la cura. In una società nella quale di ogni cosa si deve conoscere il prezzo, il lavoro della produzione in cambio di reddito è stato separato di netto da quello riproduttivo, relazionale.

Tuttavia, ci sono anche femministe che sulla cura hanno degli interrogativi veri. Ne parlano quasi si avventurassero sui carboni ardenti.

Quanto agli uomini con i quali condividiamo delle pratiche politiche, rimuovono o dimenticano di nominare la cura – secondo me – per opportunismo. Hanno paura di aprire dei conflitti oppure vogliono continuare loro a dare le carte? Eppure i conflitti dobbiamo proprio aprirli. A cominciare da Paestum.

 

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