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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Donne e piazze. Vogliamo discuterne davvero?

18 Dicembre 2011
di Letizia Paolozzi

La manifestazione di “Se non ora quando” dell’11 dicembre non è stata preceduta da una discussione intensa, come invece si era avuta il 13 febbraio. No, non mi riferisco alla campagna di giornali come “Repubblica”, ma alle voci, tante: a favore, dissonanti, critiche, curiose, che avevano segnato con un fiorire di iniziative, di distinguo e comunque di interesse, la nascita nelle piazze di molte città italiane, del movimento Snoq.

Che le femministe siano scomparse, colte da un’improvvisa epidemia influenzale? No, io credo che è responsabilità di tutte (e di tutti ma questo è più difficile) continuare a discutere, magari con durezza, affinché energie preziose non vengano disperse. L’11 dicembre non era facile riconoscere, almeno nella manifestazione a piazza del Popolo, quello che Franca Fossati chiamerebbe “un vero centro di gravità”. Mentre la manifestazione del 13 febbraio aveva sì un cuore: chiamatelo Berlusconi, oppure l’esibizione pubblica sfrontata di un privato scandaloso, di un’idea insopportabile dell’uso del corpo femminile, chiamatelo spudoratezza e impunità del potere. Insomma, condivisibile o meno, era chiaro il centro di gravità.

Adesso gli “obiettivi” ci sono tutti – dal welfare al lavoro alla maternità – ma nessuno assume – almeno ai miei occhi – una declinazione tale da provocare una rottura delle rigidità mentali fin qui esibite dai partiti – di destra e di sinistra – dagli imprenditori e dai sindacati, quanto agli orari, ai tempi, all’armonizzazione possibile tra momento produttivo e riproduttivo.

Mettiamola così. Esiste un movimento con molta energia e voglia di esserci. Cerca visibilità e rappresentazione nei luoghi mediatici dove invece l’immagine femminile viene per lo più selezionata per ragioni estetiche. Aspira a una presenza nelle istituzioni. “Io femminista? Ma quando mai, quella storia riguarda le nostre mamme. O le nostre nonne”. Non vuole tanto distinguersi, quanto essere pari ai maschi. Anche se i maschi risultano decisamente in sofferenza: la politica che producono non è proprio di straordinario fulgore (“perché avete dovuto chiamare noi tecnici?” ha chiesto retoricamente il premier Monti, rispondendosi di fronte al Parlamento: “perché eravate paralizzati!”. Probabilmente inconsapevole della natura anche sessuata del problema..).

Correggetemi se sbaglio ma a me sembra che questo movimento resti in bilico tra la rivendicazione della forza sociale femminile e il racconto vittimistico di una semieterna condizione di subordinazione, di oppressione. “Non contiamo abbastanza; ci tengono ai margini; eppure ci offriamo come salvatrici nella crisi; abbiamo un valore che va rappresentato con la democrazia paritaria”. Con la geometrica potenza della mela tagliata a metà, del 50 e 50 “per contenere la presenza degli uomini”. Ma rischiando così di cadere in una sorta di antipolitica, giacché si invoca la quantità al posto della distinzione, la generica appartenenza di sesso  al posto della qualità della relazione e della forza del conflitto.

Guarda caso, negli stessi giorni della manifestazione, alcune signore davano prova di contare moltissimo con l’Europa appesa al dettato di una cancelliera di nome Angela mentre da noi, il nocciolo duro della manovra Salva-Italia se lo giocava la ministra Elsa Fornero. Intanto, la Confindustria continua a parlare per bocca di “una” presidente e la Cgil di “una” segretaria.

Non si tratta di donne?

E poi, l’art.3 della Costituzione recita che“tutti i cittadini hanno pari dignità davanti alla legge, senza distinzione di sesso…”. Piaccia o non piaccia, questa è la democrazia, bellezza!

Secondo me, a piazza del Popolo mancava la cifra di un cambiamento più forte che per la politica delle donne ha significato in questi trent’anni critica all’uso strumentale del potere, riconoscimento dell’autorità femminile, attenzione alle relazioni tra donne e tra uomini e donne, progetti di esistenza basati su una nuova sobrietà, su un’idea diversa, più ampia, più ricca, più umana del lavoro.

Il fatto è che la voglia di esserci non basta. “La responsabilità di fare i conti con il cambiamento” (Stefano Rodotà in “Elogio del moralismo”, Laterza) dovrebbe, nel disegnare pratiche di vita, seguire un percorso che non nasce né con Berlusconi né con la crisi. Ma può agire proprio in tempo di crisi.

Questo significa tenere insieme le due facce del lavoro, quella produttiva (portare a casa il pane) ma anche quella nascosta, gratuita, necessaria per vivere. Allora, nominando gli obiettivi del welfare, lavoro e maternità, perché non provare a intrecciarli? Molte sono partite da un simile assunto ascoltando il punto di vista che nasce dall’esperienza femminile e dalla scoperta che autonomia e dipendenza, individualità e relazioni non possono essere separate.

Perché non interrogare “la cura del vivere” con quel carico di responsabilità sociale che le sta appiccicata addosso, e perché non trovare alla cura uno sbocco reale, concreto nell’esistenza e nei desideri degli uomini e delle donne? Perché non aprire dei conflitti pubblici, politici, con i partiti, e anche con i sindacati?

Lavorare meno ma meglio magari è un’utopia possibile persino oggi. Il Censis nel suo recente rapporto scrive che si sta tornando a usare la testa. Se il vecchio ordine patriarcale sta franando, il primo passo, appunto, è questo: usare la testa. E le parole che dalla testa possono uscire. Prima di andare in piazza.

 

 

 

 

 

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