Ho partecipato il 16 luglio a Genova a un incontro tra rappresentanti di diversi movimenti, non a caso nell’ambito di riflessioni a dieci anni dal G8 del 2001. Uno scambio segnato da una comune consapevolezza della centralità della relazione e del conflitto tra uomini e donne: fin dal titolo “INcontro, donne e uomini in movimento. Liberare i confitti, riconoscere le differenze”, con l’enunciazione di un proposito: “verso un percorso di consapevolezza e sguardo critico sulle esperienze politiche e di mobilitazione”.
Dibattito aperto e coordinato da Elena Lozzi, del gruppo genovese “Lo sbarco” (deriva dall’iniziativa di una “nave dei diritti” globali che da Barcellona approdò a Genova tempo fa) che ha registrato diversi “racconti”.
Quello di un giovane maschio dell’associazione “Nuovi profili”, che ha parlato dei conflitti tra figli, maschi e femmine, e genitori nelle famiglie immigrate, rispetto al desiderio di sottrarsi a culture patriarcali tradizionali, spesso sostenute anche dai ruoli materni.
Quelli riferiti da alcune giovani “femministe indignate” spagnole, protagoniste del movimento che ha occupato le piazze: nel loro gruppo hanno piena cittadinanza donne, gay e trans. Ai maschi etero è riservato un ruolo di “ascolto attivo”. Hanno parlato molto del lavoro, della maternità, dell’esigenza di reagire a politiche economiche ingiuste. Poi le testimonianze di Silvia, sulla lunga battaglia e il successo dei comitati per l’acqua. Di Annalisa sulla pratica politica nel gruppo “Lo sbarco”, attenta alle ingiustizie globali ma anche alla cura del sè. Di Stefano Ciccone sul tentativo di “maschile plurale” di combattere gli atteggiamenti violenti degli uomini: sia quelli praticati nella quotidianità familiare, sia quelli del potere politico, ma anche le scelte di quei settori dei movimenti che, a Genova dieci anni fa, ma anche oggi nelle manifestazioni studentesche, a Vicenza o in Val di Susa, abbracciano la linea dello scontro di piazza senza cura della relazione con le altre componenti dei movimenti – per lo più maggioritarie – che diffidano di quest’uso della violenza o lo rifiutano decisamente. E la rifiutano sia per il suo significato culturale e simbolico, per la concretezza della violenza che mette a rischio l’incolumità dei corpi, per l’uso strumentale che ne fanno i media e il potere politico.
Non farò un resoconto completo. Ciò che mi ha colpito è l’insistenza, negli interventi delle relatrici e relatori, e poi nel dibattito col pubblico, sul desiderio di una nuova politica, basata essenzialmente sulla qualità delle relazioni tra le persone che la praticano, orientata contro gli aspetti violenti e egoistici del capitalismo, capace di esprimersi con nuovi linguaggi, critici e ironici, generalmente ignorati dai media, ma dilagati sul web anche in Italia in occasione delle recenti elezioni amministrative e nella campagna referendaria.
Temi – in particolare quello sul rapporto tra iniziativa politica, movimenti e uso della violenza – che erano emersi anche nella discussione a cui ho partecipato, pochi giorni prima, alla Libreria delle donne di Milano, in occasione della presentazione di un mio libro su Genova e il G8. Quella discussione è proseguita in rete, e la segnalo, con un testo di Luisa Muraro ( “Ragioniamo sulla violenza nella realtà e nella politica”) che risponde al lungo documento sui fatti in Val di Susa prodotto dal gruppo torinese “Sguardi sui generis” (“Il dovere di puntualizzare”) e si aggiunge a un altro testo sugli stessi temi scritto il 5 luglio da Laura Colombo e Sara Gandini (“Genova 10 anni dopo – riflessioni sulle pratiche di lotta”).
Ho pensato, di fronte alla quantità e alla qualità dei tanti interventi femminili in queste discussioni, che sta diventando sempre più vero che “la politica delle donne è la politica”. Concetto espresso anni fa dalle femministe della Libreria delle donne di Milano, e di cui finora forse non avevo compreso pienamente il senso.
Una volta si sarebbe detto che la “contraddizione principale” non è più quella tra capitale e lavoro, ma appunto quella “di sesso”, tra uomini e donne. Nel frattempo le pratiche politiche del femminismo e i suoi pensieri sul mondo hanno già dato luogo a politiche vincenti non solo sul piano delle relazioni di genere (la fine del patriarcato è ormai un vissuto, per quanto duramente conflittuale, di donne e uomini non solo nei paesi occidentali ma in tutto il mondo), ma su un piano ancor più generale, che mette in gioco, cioè, il destino dell’umanità intera.
A Genova era molto citato il pensiero ecologista di Vandana Shiva. Molto è stato detto sul rapporto tra lavoro produttivo e lavoro di cura, sui ruoli di genere non più supinamente accettati. E’ stato citato il lavoro relazionale che sta alla base dei “Gruppi di acquisto solidale” (Gos). Il movimento che contestava la globalizzazione – questo tipo di globalizzazione – un decennio fa a Seattle e a Genova, duramente represso, sembra aver cercato e trovato altre strade.
Su questo sito si è scritto riccamente in questi giorni sulla discussione a Siena organizzata dalle donne di “Se non ora quando”. Vorrei dire a Gainguido Palumbo, che propone nel suo intervento uno “Snoq” anche maschile, che particolarmente in questo caso non mi convince l’idea di una pratica politica “mimetica” rispetto a quanto fanno le donne (alcune, per quanto numerose, donne).
Se noi maschi parliamo a nome del nostro sesso, e non di una qualche parte politica, non possiamo rimuovere tanto facilmente che, in quanto uomini, occupiamo ancora e sempre meno autorevolmente quasi tutti i posti di potere. Quindi è un’altra strada che dobbiamo cercare, intanto aprendo il confronto e se necessario il conflitto – e sarà certo necessario – con i maschi che restano sordi al cambiamento che sta attraversando la nostra società e il mondo intero.
A Siena si è discusso di lavoro, di maternità, di immagine del corpo femminile. Le voci sono state anche diverse, e su ognuno di questi punti la discussione è ben vivace tra le stesse donne e nel femminismo. Noi uomini dobbiamo saper interloquire con questo confronto (rifuggendo, caro Gianguido, da certi stereotipi che trovo veramente un po’ triti e propri di un sistema mediale insopportabilmente pigro, come quello del “femminismo storico elitario”) costruire nuovi punti di vista, partendo prima di tutto dalla elaborazione della incapacità maschile di praticare una politica vicina ai desideri essenziali delle persone.
A Milano sto partecipando a una esperienza che esprime questa voglia di nuova politica, l’Agorà del lavoro (agoradellavoro.com) voluta da diversi gruppi del femminismo e da alcuni uomini. Un appuntamento mensile che riprenderà a settembre. Non so se si tratta di una cosa generalizzabile. Certo avverto il bisogno che si moltiplichino luoghi in cui donne e uomini si scambino in modo permanente opinioni e esperienze su che cosa può essere oggi la nuova politica che desideriamo. Se lo facessimo e trovassimo un liguaggio comune, capace di attivare uno scambio sia pure nelle differenze, sarebbe già una nuova politica.