Nell’ultimo decennio non ho mai firmato un appello, resistendo alla tentazione degli intellettuali di firmare e indignarsi. L’appello “Se non ora quando?”, poi, non aveva proprio niente di seduttivo o di accattivante sul piano intellettual-politico. Ma era nel giusto, aveva ragione, esprimeva un sentire comune che non aveva nulla del politically correct che gli è stato rimproverato dagli smutandati.
Le donne scese in quella piazza – più nazional-popolare che radical-chic – erano e sono sicuramente antiberlusconiane convinte: ma resto persuasa, come allora, che ciò che le univa veramente non fosse un moralismo bacchettone. E non perché creda alla favoletta delle donne espressione pura della società civile o all’estraneità della sinistra e delle sue donne a questo strano , un po’ vecchiotto e un po’ nuovo, movimento femminile.
E, tantomeno, perché creda – come ci ha rimproverato Giuliano Ferrara – in una natura umana idealizzata e perfetta, senza storture e immune dal peccato. Anzi, proprio perché sono convinta che nel peccato siamo immersi, penso sia morale e non moralistico impegnarsi per raddrizzare i nostri legni storti.
E se le donne per destino storico e predisposizione sacrificale ma anche per straordinarie capacità di ricostruzione possono essere la spina dorsale di questo tornare diritti, bè sì ne sono contenta.
Perché io non rifiuto con supponenza il fatto che, ancora una volta, siano le donne a dare risposte positive, assolvendo alla consueta funzione di supplenza che viene loro richiesta nei momenti di emergenza di cui la nostra storia è piena.
Le mie raffinate amiche femministe diranno che è il solito ruolo ancillare e subalterno.
Ma io resto convinta che ri-costruire, e aggiustare ciò che è rotto, riparare e curare dia molta soddisfazione. Anche se non ci viene riconosciuto e rischiamo una perdita simbolica. Credo che ritornare a un vecchio e sano piano rivendicativo sia salutare per la nostra condizione, sempre più forte, eppure ancora debole, e per responsabilizzare un maschile sempre più infragilito fino allo sfinimento.
E se le amiche del movimento “se non ora quando?” hanno individuato nel nesso maternità –lavoro il punto cruciale, bé credo proprio abbiano colto nel segno. Certo, si dirà: “Dipende da come si affronta”. Ma intanto è questo il punto da cui partire.
Del resto occorre ricominciare a pensare tutte insieme, non da zero, è ovvio, ma nel senso che questo è proprio il momento di pensare fuori dalle logiche consumate. E di farlo, insieme, donne di tutti gli schieramenti. E non penso tanto e solo agli schieramenti politici. Perché non è la politica che muove le donne e i giovani, i due mondi che conosco bene. Non è affatto “la politica” né quella dei partiti né quella fuori dai partiti. Non che ci sia da temere più di tanto l’influenza dei partiti che sono ormai i fantasmi di se stessi.
E’ la vita nella sua concretezza fatta di bisogni materiali molto precisi e, insieme, di spiritualità profonda, fatta di ricerca di senso e di motivazioni. Che poi “la politica” “intercetti”, come si dice con una brutta espressione, questi bisogni, è affare suo, ormai quasi autoreferenziale.
Proprio perché il momento è davvero difficile c’è bisogno delle donne e degli uomini di buona volontà che capiscano questo. Che resistano alle strumentalità reciproche. Quando dico fuori da tutti gli schieramenti penso in primo luogo a quello laico e cattolico che si sono combattuti all’arma bianca, per almeno un decennio.
Le dignità delle donne italiane, la loro stessa identità è fondata su quella strana emancipazione nostrana, in parte riuscita e in parte frustrata, frutto di una pratica di vita molto concreta che rende le italiane emancipate a modo loro: è in nome di questa storia, e non per moralistica e astratta indignazione, che rifiutano di cedere al cinismo dilagante.
E in questa strana identità della donna italiana, non capire quanto abbia contato – e non solo come regressione – l’influenza della cultura cattolica è davvero miope.
E’ ingenuo, da parte nostra, additare, indignate, i modelli dell’emancipazionismo nordico come è patetico da parte delle donne di destra, pensare di inventarsi una Sarah Palin nostrana. Al massimo la destra può sperare in una sguaiata Santanché che invece dei fucili imbraccia il padrone del Billionaire o che invece di esibire il figlio handicappato, vizia il suo unigenito portandogli in dono elefantini vivi per il suo compleanno (così qualche anno fa si espresse il senso materno della Santanché).
Dico questo con uno spirito per nulla giudicante: proprio perché ritengo legittime tutte le scelte femminili sul modo di gestire il rapporto tra la propria maternità e il lavoro (ma bisogna garantire le condizioni materiali perché questo sia possibile) penso che occorra confrontarsi a tutto campo. Liberamente e fuori dagli schieramenti.
Non si può essere ingenue e invocare un dialogo che si esaurisce con le buone intenzioni: sulla sessualità, sull’inizio della vita e sulla procreazione le donne laiche e quelle cattoliche sono divise. Profondamente divise.
Qui però io invoco un forse teoricamente improprio ma praticamente decisivo “consenso per intersezione”: sul rapporto tra maternità e lavoro, le occasioni di un incontro fattivo sono veramente tante pur partendo da punti di partenza molto diversi.
Nel nostro paese il materno, il potere, il sesso, hanno storie, culture, valori e morali molto, ma molto specifici. Reinterroghiamoci, insieme, cattoliche e laiche, di destra e di sinistra, a partire da questo: non limitiamoci ad abbandonare le rispettive, obsolete, ideologie, (ché a questo ci pensa già la realtà) ma a fare uno scatto soggettivo in più, ripensare le proprio appartenenze tra laiche e cattoliche.
Cercando di fare capire ai compagni delle proprie “fedi” che non si tratta di approfittare – di qua o di là – delle occasioni offerte dalle opportunità politiche del momento.
Ad esempio non vedo particolari riposizionamenti e cambi di schieramenti del fronte cattolico, quanto, piuttosto la volontà di non rassegnarsi all’indifferenza. E’ ancora poco si dirà, ma a me sembra già moltissimo.
“Mi auguro solo – scriveva sull’”Avvenire” del 15 febbraio il direttore Marco Tarquinio che coraggiosamente appoggiò la manifestazione delle donne – che d’ora in avanti ci si ricominci ad ascoltare davvero. Che si provi e riprovi ad accordarsi (nel senso armonico del verbo) per riconoscere il “bene” fondamentale di cui finalmente riparliamo dopo decenni di svendite parallele, la pari dignità della donna, e dunque, dell’uomo”.
Ecco questo mi sembra lo spirito giusto.
Senza recriminare, senza rese dei conti tra cattolici pro o contro Berlusconi. La cosa veramente essenziale, ora, sarebbe ritrovare una fiducia attenta e reciproca tra laici e cattolici e forse ancor più all’interno dei cattolici divisi per testimoniare quell’ “umanesimo potente” che deve unire e non dividere. Questo paese non ha più un’anima e le donne possono aiutare a ritrovarla: l’anima è l’ossigeno, non un pregiudizio religioso. Senza interpretare l’angelo sterminatore della nemesi, credo però che le donne oggi testimonino questa consapevolezza.