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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Fukushima, Chernobyl e la coscienza del limite

30 Maggio 2011
di Franca Chiaromonte

L’attenzione dei media si è molto rarefatta sulla dinamica e gli esiti dell’incidente nucleare di Fukushima, ma dobbiamo essere consapevoli che l’incidente è tutt’ora in corso e che attorno alla centrale accadono fatti rilevanti. E’ di oggi, 30 maggio, la notizia che la Germania ha detto un “no” definitivo al nucleare, programmando la dismissione delle sue centrali. Altri rischi poi si addensano sulla centrale giapponese, giacchè si prevede l’arrivo di un tornado.
Dallo “slow fish” di Genova intanto si apprende che l’inquinamento radioattivo marino è giunto sino alle coste del Canada, dove i pescatori sono “in rivolta”. E in Giappone per la prima volta i contrari al nucelare sorpassano i favorevoli. Da un sondaggio del quotidiano Asahi emerge che il 34% vorrebbe puntare ancora sull’atomo a uso civile, a fronte del 42% orientato a voltare pagina, invertendo i rapporti di forza che erano, rispettivamente, del 52% e del 18%, secondo i risultati di un’analoga rilevazione fatta prima dell’incidente e della crisi della centrale di Fukushima.
Dopo l’incidente che ha scosso il mondo intero è cambiata la percezione sul nucleare anche in altri Paesi. I sostenitori in Germania (19%) e Russia (36%) perdono quota, misurandosi con oppositori saliti all’81% e al 52% (contro i precedenti 56% e 47%). In Corea del Sud e Cina, i contrari sono saliti al 45% (dal 27%) e al 48% (dal 36%), attestandosi su livelli quasi simili ai favorevoli. In Francia e Stati Uniti il numero di sostenitori è maggiore di quello dei contrari: 51% e 55% a fronte di 44% e 31%.
Ma la notizia più terribile riguarda gli “eroi” che continuano a lavorare nella centrale di Fukushima. Rassegnati a morire per scongiurare un disastro nucleare, costretti a vivere in condizioni impossibili, ma almeno ben pagati. Secondo la stampa nipponica, ai ’50 di Fukushima’ – come vengono ormai chiamati gli ‘eroi’ che lavorano nella centrale nucleare devastata- sono stati offerti 400mila yen al giorno (oltre 3.500 euro): prima della crisi, agli operai venivano dati tra gli 85 e i 170 euro al giorno.

MAGGIO 1986, QUANDO SCENDEMMO IN PIAZZA

CONTRO LA SCIENZA A SESSO UNICO

26 aprile 1986, scoppia il quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl.
Dalla lontanissima periferia della Russia una nube tossica percorre inesorabilmente regioni, paesi, fiumi, laghi facendo sentire forse mai come allora mondi e destini lontani uniti, legati dalla paura delle radiazioni, della contaminazione dell’ambiente, di alimenti divenuti tossici (come dimenticare la paura nostra e di tante mamme per l’insalata!), di partorire bambini malati.
24 maggio 1986, le donne e le femministe italiane convocano, a distanza di una sola settimana dalla prima manifestazione nazionale mista, un’altro corteo per dire la loro sul disastro di Chernobyl, la loro, da sole, senza uomini. L’appello tra l’altro afferma a proposito del tragico incidente nucleare che esso è “l’esito prevedibile di un’ingannevole concezione del progresso e di un uso della scienza astratto dalla materialità della vita” e aggiunge “oggi è particolarmente necessario affermare la nostra distanza da chi ci vorrebbe complici silenziose di scelte che ci sono estranee”.
Potrei proseguire nel riportare stralci di quel manifesto che mi vide partecipe come molte altre ( tra le quali Livia Turco con il suo impegno e la sua intelligenza ), ma mi interessa farlo tentando di costruire un collegamento con l’oggi, con un presente nel quale l’incubo radiattivo si è riaffacciato prepotentemente nella nostra vita a causa del disastro di Fukuschima.
Sono passati infatti 25 anni da Chernobyl, la scienza ha proseguito con rapidità la sua incessante evoluzione e difficile mi pare sia affermare che la tecnologia non abbia ancora più radicalmente cambiato la nostra vita, eppure, come allora la paura radioattiva ci consegna a tutte le nostre fragilità umane, all’impossibilità per l’uomo di dominare la natura e di sovradeterminarla.
Per questo credo che rileggere le riflessioni che noi donne abbiamo prodotto allora, non solo abbia un grande valore ma ci consegna la responsabilità, forse, di riprendere da dove abbiamo lasciato e di riaprire tra noi una riflessione su questi temi come sempre da un sentiero per me caro e fecondo, quello della differenza.
C’è da aggiungere poi che nonostante molte di noi abbiano intrapreso nuovi terreni di ricerca, allontanandosi magari dal terreno della critica della neutralità della scienza, quella critica al concetto di universale maschile ha prodotto comunque una continuità di pensiero femminile che ad esempio viene ben rievocato da un bell’articolo comparso questo mese su Le monde diplomatique della militante ecologista Janet Biehl.
Eppure una certa inerzia nell’approfondire alcuni temi che in quei giorni abbiamo tutte insieme abbozzato va sottolineata, in particolare se pensiamo proprio al nostro silenzio, a quello di tanti partiti di sinistra e del movimento ambientalista, prima e dopo Fukuschima, verso l’idea e verso il fattore crescita di molti paesi occidentali e sviluppati laddove la crescita equivale sempre di più a consumo ed al consumo di energia e dunque di investimenti sul nucleare civile (e non solo!).
Possiamo partire, come già abbiamo fatto allora, da questo nostro ritardo non solo per colmarlo ma per arricchire il pensiero della differenza di nuova linfa. Ad esempio il dibattito, seppure eccessivamente neutro, sui beni comuni non solo ha il merito di promuovere un nuovo senso della cittadinanza ma solleva ancora una volta il rapporto tra l’individuo e la natura, tra l’individuo ed il collettivo, tra il privato e lo stato che certamente per noi donne sono sempre stati binomi di grande interesse. Non credo sia giusto sottovalutarlo, ma al contrario potrebbe risultare di reciproco interesse trovare un terreno di comunicazione.
Ma faccio ancora un passo indietro e torno ad alcuni concetti sollevati allora. Sempre in quell’appello noi donne abbiamo scritto che “ad un pensiero che definendosi universale ed esprimendo invece la parzialità di un solo sesso, persegue in nome di tutti un’idea di benessere falsa che oggi minaccia la distruzione dell’umanità e della natura, le donne oppongono un pensiero attento alla vita che le ha sempre accompagnate nei lunghi secoli della storia”.
Avevamo parlato di donne e materialità della vita, di falso benessere che minaccia la distruzione della natura, possiamo dire oggi che non solo questo appare sempre più vero ma che fare manifestazioni di sole donne aveva ed ha un senso per costruire solidarietà, alleanza ed indebitamento tra donne, per cogliere ancora una volta il senso di una “estraneità” che non vuol dire sottrazione da responsabilità che anche noi abbiamo, ma costruzione di consapevolezza critica.
E quell’alleanza tra noi donne ha anche ed ancora una volta un valore pratico se guardiamo alle tante manifestazioni specifiche con cui la distruzione ambientale colpisce le donne. La Bihelt in queso senso aggiunge a quelle intuizioni qualche dato e ragione in più.
Secondo un rapporto del Women’s Environmental Network ogni anno più di 10 mila donne contro 4 mila cinquecento uomini muoiono per disastri legati all’ambiente. Le donne rappresentano l’80% dei rifugiati per catastrofi naturali. La domanda sorge spontanea: come è possibile che siano le donne a morire più degli uomini? Basta la nostra maggiore vulnerabilità física o sociale a spiegare questo dato?
Ancora una volta è la vita materiale che ci fornisce le risposte. In un grande alluvione in Bangladesh del 1991, ad esempio, sono morte 5 volte più donne degli uomini poichè mentre questi fuori dalle case si sono dati l’allarme e sono scappati, le donne sono rimaste in casa in attesa di aiuto od intralciate nei movimenti dai lunghi abiti!
Ancora una volta gli uomini si chiamano a vicenda, che cosa aspettiamo noi a darci una mano?
Certo a rileggere le pagine dei nostri interventi il nostro interesse pare incentrato soprattutto sulla complicità tra donne, sui percorsi separati, sulla pratica dell’inconscio. Credo però che anche grazie all’esigenza di promuovere un’azione separata di donne contro la neutralità della scienza abbiamo tentato di proseguire il nostro percorso – allora e oggi – di critica alla neutralità del potere. Anche oggi, ad esempio, ragionare sulle coltivazioni transgeniche partendo dalla coscienza del limite credo apra uno spazio fecondo, così come pure va ridiscussa l’idea che tutto (compresa l’aria che respiriamo) debba essere giustificato sull’altare della crescita e del consumo: invece vanno riprogrammati i consumi sulla misura delle concrete necessità private, ma libere e liberate dagli inutili sprechi della nostra vita di tutti i giorni.
Insomma bisogna forse ritornare a credere di più a ciò che abbiamo affermato: di fronte allo sviluppo della scienza e della tecnologia bisogna fare sempre più attenzione al carattere storico e sociale delle scelte e dei fini. Senza queste coordinate è facile perdersi.
La elaborazione da parte del movimento delle donne ha aiutato a meglio definire la critica al concetto di individuo universale dando una portata liberatoria all’individuazione della differenza di genere non solo per noi donne. Ma per i due sessi.
Infine e proprio perchè credo che noi donne possiamo e dobbiamo guardare criticamente anche a noi stesse, al nostro agire ed alla nostra produzione politica, mi interesserebbe riaprire una discussione a partire anche da alcune affermazioni di quei giorni.
Abbiamo scritto infatti che la disparità, la disuguaglianza, la dipendenza, l’attribuzione di potere cambiando di segno, di sesso e di luoghi avrebbe cambiato anche la sostanza e non avrebbe più provocato le invidie, le ferite e le rinunce che in tante conosciamo. Siamo sicure, laddove il potere è stato assunto dalle donne, di essere riuscite a rompere la sua meccanica ripetitività?
Questa per noi potrebbe essere una nuova sfida, sbilanciamoci!

Tra le varie vedi Scienza potere coscienza del limite. Dopo Chernobyl: oltre l’estraneità Quaderni di Donne e politica, settembre-ottobre 1986 Editori Riuniti Riviste.


Mi riferisco ovviamente al dibattito generale sul testo L’ape e l’architetto ed a quello poi intrapreso da molte scienziate anche da un puno di vista di genere.

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