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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Sai dove sorride più magico il sol?

24 Marzo 2011
di Lanfranco Caminiti

Quello che si sperava, un intervento della comunità internazionale in Libia, è accaduto. Quello che si temeva, un intervento della comunità internazionale in Libia, è accaduto. Se Gheddafi fosse arrivato a Bengasi sarebbe stato un bagno di sangue. Le bombe su Tripoli provocheranno un bagno di sangue.
Ci rallegreremo se Gheddafi sarà definitivamente allontanato nello stesso tempo in cui piangeremo per le vittime dei bombardamenti dei “volenterosi”. Non ci sarà definitivo sollievo, non ci sarà definitiva compassione. Non è vero che c’è un tempo per gioire e uno per piangere. È vero, piuttosto, che c’è sempre qualcuno che gioisce e qualcuno che piange. Nello stesso tempo.
Chi, in nome di un’assoluta determinazione contro la guerra, si esprime contro l’intervento internazionale ha tutte le ragioni del mondo – le bombe non sono mai abbastanza intelligenti. Chi, dietro l’intervento, vede ragioni di ordine economico – il petrolio – e di controllo strategico e ripresa di influenza sull’area, ha tutte le ragioni del mondo. Chi teme un prolungarsi infinito delle lacerazioni intestine, uno scatenarsi di violenza ingovernabile e porta a prova testimoniale l’Afghanistan e l’Iraq, ha tutte le ragioni del mondo. Chi, con cinico realismo, pensa che un potere dispotico sia comunque meglio di una teocrazia fanatica ha tutte le ragioni del mondo.
Io so tutto questo.
Ma so anche che se fosse passata la “soluzione Gheddafi” – bombardare la piazza, inerme o armata che sia – quanto si è già mosso o sta per muoversi in Nord Africa e Medio Oriente sarebbe stato condannato. La soluzione militare avrebbe pesato come una minaccia su quanto è già scosso e ancora cerca soluzione – guardate le difficoltà dell’Egitto e quelle della Tunisia – o come un nodo irresolubile su quanto ancora può accadere – guardate le difficoltà dell’Egitto e quelle della Tunisia: le vecchie caste politiche, religiose, militari stanno riconquistando posizioni, hanno meno paura della piazza.
Sono le rivolte che attraversano il Nord Africa ad avere perduto Gheddafi, non la grandeur di Sarkozy o l’idealismo imperiale di Obama o il neocolonialismo britannico.
A Mohammed Bouazizi – il giovane tunisino laureato e venditore ambulante di frutta e verdure che si diede fuoco innescando l’insurrezione dell’area – non gliene importava poi molto di Sarkozy, di Obama e di Cameron. Forse non gli importava neppure dell’insurrezione. Lui, voleva solo vendere la sua frutta.
Quelli che odiano le bombe, quelli che sanno del petrolio, quelli che hanno visto l’Afghanistan com’è ridotto, quelli che sanno di geopolitica, avevano qualcosa da dire prima a Mohammed Bouazizi? Prima che si desse fuoco? Avevano qualcosa da dire ai rivoltosi di Bengasi prima che impugnassero le armi?
Sto dalla parte dei rivoltosi di Bengasi. Senza ma anche no. Loro vogliono le bombe contro Gheddafi. Non credo siano più stupidi di noi, meno etici di noi, meno strategici di noi, meno cinici di noi. Loro difendono la loro rivolta, noi chi difendiamo? La loro rivolta non è la nostra, e quali sono le nostre rivolte? Abbiamo, noi, un manuale per le rivolte da far cadere dal cielo invece delle bombe?
Non so nulla dei rivoltosi di Bengasi, e quello che so da qualche giorno non fa certo la differenza. Chi può dire di saperne davvero qualcosa? Sono monarchici, mi dicono, sono religiosi, sono tribali, sono qaedisti, mi dicono. Come per tutti i sommovimenti che stanno attraversando il Nord Africa e il Medio Oriente non ci vuole la laurea al Mit per presumere che in essi giochino contraddizioni di differente natura, sociali, economiche, nazionaliste, di classe, di modernizzazione, di demografia, religiose, militari, di mire e interessi geopolitici.
E d’altronde quando mai un sommovimento sociale non è attraversato da un complesso di contraddizioni? E quando mai un sommovimento sociale non rimette in gioco quelle stesse contraddizioni che l’hanno generato?
Questi sommovimenti stanno accadendo non in ordine sparso, come successo altre volte, ma concentrandosi tutti in un breve lasso di tempo, in questo momento. Ed è esattamente il fatto che si siano concentrati in uno stesso periodo che rende storico questo tempo.
Paesi di una stessa area geografica con notevoli differenze, di storia, di tradizione, di forma di governo, di gestione del potere, di alleanze internazionali, di produzione della ricchezza e di ridistribuzione, a volte ostili tra loro, sono attraversati da diverse eppure contemporanee volontà di cambiamento che prendono forza l’una dall’altra.
Si profittano l’una dell’altra: d’altronde, la storia va avanti anche per emulazioni. Osservare i comportamenti dei vicini, per ritrarsene o imitarli, è attitudine antica dell’uomo. Della storia. Non vinceranno tutte insieme, non rovineranno tutte insieme, non avranno tutte uno stesso risultato, una stessa forma.
Ma stanno accadendo tutte insieme. Un evento impensabile. La storia è impensabile. E non succede mai come vorremmo succedesse. Fa storcere il naso, la storia.
A questa voce di cambiamento noi – qui in occidente, dico – diamo il nome di democrazia. Impropriamente, per il carico di significati e di riferimenti alla nostra storia che la parola comporta. In un certo senso a me sembra piuttosto un nuovo islam, una nuova salvazione. O forse l’intravedersi, l’avanzarsi di una rottura protestante.
Ma con qualsiasi nome lo si possa definire, questo sommovimento mette in crisi quella certezza che le nostre democrazie avevano nei riguardi di questa enorme e strategica area regionale, e cioè che essa fosse refrattaria e condannata all’immobilismo. E pure che, in fondo, fosse meglio così: ogni volta che una frattura si intravedeva, si proiettava l’ombra lunga del fondamentalismo che dall’11 settembre in poi è diventato il nemico pubblico numero uno delle nostre democrazie. Di tutti noi, dico. È sulla base di questa nemicità assoluta che le nostre democrazie hanno costruito e coltivato le alleanze nell’area.
Questi sommovimenti hanno dichiarato la fine politica del qaedismo. Certo, sopravvivrà, certo potrebbe pure accrescere qui e là il suo reclutamento, dove una sconfitta politica si determinasse. Ma la sua spinta propulsiva è finita. Questo è un sollievo. Questo è il nostro debito politico nei confronti di Mohammed Bouazizi, di piazza Tahrir, dei rivoltosi di Bengasi.
Ed è finito pure l’esodo, la fuga, la diaspora del mondo arabo, come alternativa: l’immigrazione, l’altro grande spauracchio delle democrazie occidentali. Queste rivolte indicano la strada del ritorno, e del restare. C’è la possibilità di cambiare, c’è una strada individuale al cambiamento. La salvazione è qui. Si può vendere la frutta qui. Questa è una speranza.
Il mondo è cambiato, perché il Nord Africa e il Medio Oriente stanno cambiando. Perché piazza Tahrir è cambiata, Tunisi è cambiata, San’a è cambiata.
Non è stato il battito d’ali di una farfalla da qualche parte del mondo che ha provocato un uragano qui. È stato Mohammed Bouazizi che ha provocato un cataclisma qui.
Lui voleva solo vendere frutta.
E la terra araba sta ancora tremando.

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