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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Rabbia, conflitto, radicalità
e violenza non sono sinonimi

21 Dicembre 2010
Pubblichiamo un testo sul movimento per l'Università e la cultura proposto da Stefano Ciccone, Andrea Baglioni, Alberto Leiss, Lea Melandri, Silvia Mandillo, Gianguido Palumbo, Bia Sarasini, Marco Rizzoni

La grande manifestazione del 14 dicembre a Roma è quasi scomparsa, nascosta dal fumo delle macchine bruciate.I media hanno enfatizzato gli scontri rimuovendo la ricchezza delle storie e delle proposte del movimento.
La discussione di merito sul futuro dell’Università, sulla precarizzazione del lavoro e il valore sociale della conoscenza è stata posta ai margini. Il governo risponde con l’irresponsabilità della provocazione della pericolosa e anticostituzionale intenzione di repressione preventiva.
Ma era prevedibile.
Si può vedere lucidamente che chi ha scelto lo scontro ha regalato al Governo lo spunto per tentare di liquidare la mobilitazione e ha fatto arretrare l’opposizione alla controriforma dell’università.
La scelta dello scontro violento è politicamente sbagliata e controproducente, senza bisogno di fare ricorso alla categoria dei provocatori, o mettersi a caccia di “infiltrati”.
Chi ha fatto questa scelta si è sovrapposto al resto delle persone che manifestavano in forme diverse. La scelta dello scontro in piazza è innanzitutto una scelta di potere per imporre le proprie forme e la propria egemonia, per conquistare visibilità e rappresentanza in un mondo in cui esiste solo chi sta in televisione.
Molti di noi sono stati nelle mobilitazioni, contro la politica del governo e per la difesa del valore pubblico della conoscenza sulla scorta di una pratica e una memoria che ci impegna a trasformare la rabbia e l’ indignazione per la sordità del governo in nuove parole, in politica, nella costruzione collettiva di un’idea alternativa di cultura, di vita, di società.
Non siamo ne’ perbenisti ne’ timidi, non poniamo un problema di “buona educazione” ma facciamo a tutti e tutte una domanda sulla qualità della politica che costruiamo insieme.
La scelta delle forme di lotta, dei linguaggi, delle forme di organizzazione e di conflitto è infatti fino in fondo una questione politica.
Si tratta di scelte che incidono sulla capacità di allargare la mobilitazione, di coinvolgere altri e altre. Su questo vogliamo agire un conflitto limpido contro l’ipocrisia di chi agita il feticcio dell’unità del Movimento come un anatema per impedire ogni alternativa: vogliamo affermare un’idea di movimento plurale in cui la critica e il confronto siano liberi senza la retorica del tradimento, della fedeltà, dello schieramento.
Sentiamo anche noi l’indignazione per l’arroganza del governo, per lo squallore della compravendita parlamentare. Non vogliamo fermarci a guardare paternalisticamente la “rabbia dei giovani” come fenomeno sociologico, vogliamo metterci in relazione con i ragazzi e le ragazze che erano in piazza, riconoscerli come nostri interlocutori e affermare che la responsabilità di trasformare quella rabbia in politica è anche nelle loro mani.
Il governo in questi mesi ha irresponsabilmente risposto ad ogni mobilitazione sociale con la violenza, e l’arroganza: dagli studenti ai terremotati dell’Aquila ai migranti. Anche in questi giorni la repressione indiscriminata e gli abusi sugli arrestati hanno colpito in larga parte persone estranee alla strategia dello scontro fisico.
L’esito del dibattito parlamentare, la fiducia comprata da un leader arrogante e disperato non mostra però l’incrollabile impermeabilità di un potere contro cui scagliare la propria rabbia impotente ma al contrario la fragilità di un governo che è ormai al declino. Applaudire un blindato che brucia mentre Berlusconi umilia il Parlamento ci sembra un esito frustrato e impotente della propria legittima indignazione.
Ora serve intelligenza per far valere le ragioni di un paese migliore, per esprimere la propria libertà.
Un movimento che vuole creare spazi liberati, produrre comunicazione non può ridursi a sbattere la testa, magari intruppati a testuggine e con i caschi in testa contro un blindato che sbarra una strada che qualcuno ha deciso di indicare come zona rossa.
I metodi di azione non violenta possono esprimere una radicalità assai maggiore. E’ successo: è possibile inventare forme di lotta efficaci e coerenti con la cultura e le ragioni di chi vuole opporsi alla logica del potere, del dominio, dell’ egoismo.
Il movimento contro la legge Gelmini, la FIOM, gli studenti, i precari, i ricercatori hanno espresso questa intelligenza e questa alternativa possibile. Chi ha occupato i tetti, chi ha manifestato su tutti i monumenti, chi era alla manifestazione indetta dai metalmeccanici o ha organizzato le lezioni alternative in piazza non è meno radicale o ha meno rabbia di chi getta bottiglie di birra contro la polizia.
Per noi la radicalità di un movimento si misura sulla sua capacità critica, sulla sua proposta innovativa rispetto all’ ordine delle cose esistenti, sulla sua abilità di smascherare linguaggi e istituzioni di potere, gerarchie invisibili, forme di dominio diffuse, sulla sua capacità di svelare le forme di complicità con tutto quello che ci sembra naturale, la gerarchia tra uomini e donne innanzitutto, la logica dell’ appartenenza e della fedeltà, il conformismo.
La violenza non è solo politicamente inutile, è culturalmente subalterna: non ci emozioniamo per il gesto atletico dell’ eroico lancio della bottiglia contro i blindati, non ci attrae la sfida scudi contro scudi: gli studenti hanno scelto di “difendersi” dietro titoli dei libri che hanno fatto il meglio della nostra cultura.
Non ci piacciono i corpi militari, i corpi collettivi in cui perdere la propria singolarità e ci preoccupa la seduzione che esercita – soprattutto su molti maschi – l’emozione di sentirsi parte di un “corpo unico” che si scontra col “nemico”. Rifiutiamo qualunque pratica che chieda alle persone di omologare la propria irriducibile singolarità.
Un movimento del mondo della conoscenza non può non vedere che il conflitto si fa innanzitutto su questo terreno. Vogliamo liberarci da una cultura militarista, dal virilismo, dalla logica dell’intruppamento che rimuove la libertà e la differenza di ognuno e ognuna.

20 dicembre 2010

Su questa riflessione proponiamo di costruire occasioni di confronto in varie città d’Italia nei prossimi giorni.

Stefano Ciccone
Andrea Baglioni
Alberto Leiss
Lea Melandri
Silvia Mandillo
Gianguido Palumbo
Bia Sarasini
Marco Rizzoni

Riferimento: Stefano Ciccone (Roma) [email protected]

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