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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Introiezione del conflitto

31 Ottobre 2010
di Christian Raimo

Vi racconto una storia. Qualche anno fa stavo facendo un’inchiesta sul precariato cognitivo: intervistavo ragazzi tra i venticinque e i trentacinque anni, laureati, iperformati, ipercompetenti, che vivacchiavano tra assegni di ricerca volatili, elemosine dei genitori, e nebulose promesse di contratti – quel paesaggio tristanzuolo che conosciamo. Mi capitò una ragazza, dottorata in antropologia, che era riuscita a strappare una collaborazione part-time in una fondazione che le garantiva 650 euro al mese; il resto del tempo lo impiegava tenendo in vece della sua vecchia pigra professoressa un paio di corsi, esami e altro pseudo-volontariato universitario – retribuito poco più di un rimborso spese (un altro migliaio di euro all’anno). Tra gli intervistati, non era una di quelli messi peggio. Era una tipa in gamba, determinata, fiera della propria indipendenza (non voleva chiedere soldi ai suoi), e soprattutto iperconsapevole delle condizioni di sfruttamento, delle dinamiche baronali dell’accademia etc… Viveva insieme a altre quattro tizie in un appartamento a Tor Pignattara. Condivideva una stanza doppia, per cui pagava 200 euro al mese, un prezzo buonissimo. Più o meno a conti fatti le restavano cinquecento euro, che potevano un po’ aumentare con qualche introito delle ripetizioni (terzo lavoro, dunque). Di questi soldi ne spendeva circa 300 al mese, mi disse, per fare analisi.Ne aveva un assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa: a trenta e passa anni dormiva in un posto letto col materasso smollato come una matricola fuorisede appena approdata a Roma, non immaginava nessuno sbocco lavorativo concreto a lungo termine, si sentiva una fallita nei confronti dei suoi, non riusciva a prendere sul serio nessuna relazione sentimentale, aveva un desiderio di un figlio che le pareva pura incoscienza, era sempre stanca (la fondazione dove lavorava aveva la sede dall’altra parte della città rispetto a casa e all’università).
Alla fine di quella lunghissima intervista che si era tramutata in un botta e risposta sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni zero italiani, me andai a casa triste.

Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo differente da quella sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di rispecchiamento, non era scattato nessun senso di identità condivisa, nessun grumo di coscienza di classe, come si potrebbe dire.
Il punto è che lei per provare a stare meglio andava a fare terapia, e con l’aiuto di questo analista cercava di migliorare il rapporto con i suoi, desiderava riuscire a considerare legittimo il desiderio di poter innamorarsi di un uomo, di mettere su famiglia, la sua capacità di credere al futuro, e voleva sentirsi meno in colpa se non arrivava a fare per benino tutto quello che le veniva richiesto tra università e lavoro. Il malessere sociale che l’aveva contagiata, lei se l’era preso in carico proprio tutto tutto. La formazione di una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso individuale di ricerca di sintonizzazione psicologica, per cui spendeva quasi la metà dei suoi soldi mensili. Mi sembrò un simbolo perfetto di quello che stava accadendo in giro alle generazioni di quest’età post-comunitaria. Invece di esternare il malessere, provando a generare conflitto sociale o quantomeno affratellamento, il disagio veniva tutto introiettato e si tentava di risolverlo a proprie spese – letteralmente. Del resto questa ragazza non cercava neanche più questo conflitto, cercava serenità.
Vi racconto anche un’altra storia, più breve.

C’è un racconto di Nicola Lagioia del 2007 che ha come protagonista una ragazza di nome Sara che lavora all’organizzazione di eventi. All’inizio la troviamo nel pieno di una supergiornata di lavoro mentre, sottopagata, briga perché sono appena arrivati dei finanziamenti per quello che si vorrebbe un grande festival di teatro, letteratura, arte… La sua vita sembra una malinconica routine da animale da stagismo, se non fosse che incontra e si infatua di un tizio che si chiama Mario, e nella scena clou riesce a farsi invitare a cena da lui. Ma mentre le cose paiono andare nel verso previsto, qualcosa comincia a cortocircuitare tra i suoi pensieri: “Volevo tenere la conversazione a un livello decente, ma mentre provavo a concentrarmi sulle sue parole non ho potuto fare a meno di pensare digli degli inviti, digli degli inviti…, così ho cercato di pensare ad altro, volevo godermi la cena ma la vocina di tanto in tanto faceva capolino tra i discorsi, e mi ha seguito nel salotto, dove abbiamo preso un whisky, e mi ha seguito in camera da letto, dove a un certo punto, non so come, stavamo già facendo l’amore, ci sono stati inizialmente questi movimenti goffi, poi lui mi è entrato dentro, e mentre gli dicevo: “Mario…” in una parte della testa continuava a risuonarmi come da un pozzo senza fondo digli degli inviti, digli degli inviti”.
Vi sembra paradossale? Eppure, se ci pensiamo un secondo, questa schizofrenia non è soltanto un sintomo di una versione estrema del capitalismo del terziario avanzato. La schizofrenia è esattamente, precisamente, il modello dei rapporti di lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del conflitto di classe. Lavoratori dipendenti e autonomi, partite iva e contratti atipici, dottorandi e docenti precari, trentenni depressi e sessantenni che continuano a finanziare la vita dei figli sperando che un giorno questi li ricompenseranno. La distanza tra chi sfrutta e chi è sfruttato passa tutta per un conflitto interiore. E a lungo andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea una sorta di abituazione, una cronicizzazione del disagio. Ossia: un dispositivo clinico per cui veramente penso possibile, normale, permanere in una situazione paradossale come quella di un quarantenne che vive da adolescente, o come quella di una ragazza che non capisce se l’innamoramento che sta cominciando a provare gli potrà tornare utile per il suo lavoro di ufficio stampa. Un malessere sociale a cui, invece di riconoscerlo come coscienza di classe narcotizzata, diamo alle volte il nome di bipolarismo; in una specie di medicalizzazione della tensione politica.
(Del resto, senza rendercene conto, le patologie della psiche contemporanea sono diventate utili in termini lavorativi. Quanto, per dire, è più efficiente un’ossessivo-compulsiva come organizzatrice di eventi, che telefona per confermare dieci volte che tutte le persone invitate abbiano risposto, che le stanze degli alberghi siano prenotate, che i treni non abbiano ritardi, etc…? Quanto un narcisista all’ultimo stadio può costituire un valore aggiunto come top-manager rispetto a una persona con capacità autocritiche? Quanto una persona in preda ad ansie da prestazione sarà cento volte più disponibile per degli straordinari non pagati? Sarebbe non troppo surreale se un giorno sul curriculum cominciasse a esserci una voce Patologie a sostituire quella Caratteristiche personali o Competenze).


Ma tornando a noi, ci si può domandare perché questo disagio interiore non diventa coscienza di classe, perché questo basso di recriminazione ha raramente un acuto di rabbia, e figuriamoci se si manifesta come ribellione. Una risposta parziale la possiamo ricavare da un’altra piccola storia. Un po’ di tempo fa mi è capitato di vedere una puntata di Ballarò dedicata al lavoro. C’era un servizio di dieci minuti su un disoccupato, un uomo di mezz’età che aveva appena perso il lavoro. Dalla sua casa in penombra raccontava alla telecamera come la sua vita fosse miserabile, priva di dignità ora che si trovava a spasso: si sentiva un verme perché non poteva pagare nemmeno la scuola di calcio a suo figlio come gli aveva promesso da tempo. Alla fine del servizio, gli imprenditori che stavano in studio, tipo la Todini, avevano colto la palla al balzo e avevano subito dichiarato di fronte al pubblico: lasciateci il numero di questo disoccupato, vedremo subito cosa possiamo fare, uno straccio di lavoro in nome della scuola calcio del figlio glielo troveremo. La domanda che mi era posto non era tanto relativa al fatto di come la spettacolarizzazione annullasse in realtà il valore della denuncia, anzi legittimasse immediatamente le parole della Todini & co. Lo sconcerto che provavo era proprio nella mostruosa introiezione di questo meccanismo di sudditanza: anche il disoccupato – una volta avuta finalmente voce – non aveva nessuna capacità di diventare un soggetto politico, finiva col mostrarsi semplicemente un miserabile, non riusciva a innalzarsi dalla sua condizione di sintomo di un malessere impersonale, e a quel punto forse otteneva un lavoro.
E questo rovesciamento, come dire, negli ultimi anni è stato sdoganato. A tal punto che per esempio l’ultima campagna pubblicitaria della Presidenza della Repubblica sulla sicurezza sul lavoro fa leva proprio su questo. Guardateli i cartelloni. Un quadretto di una famiglia felice, incorniciati in un frame di una polaroid, e un inquietante slogan: Non fare che tutto questo diventi solo un ricordo. Chi si vuole bene pretende la sicurezza sul lavoro. Chi si vuole bene?! Adesso se rimango schiacciato da una pressa mi devo anche sentire in colpa? Non era un mio diritto? Non era una tutela di cui doveva prendersi la responsabilità il mio datore di lavoro? Devo farmi carico anche di questo?


Ora – e qui viene la parte difficile – come collegare questa diffusa anestesia rispetto al risveglio di una coscienza di classe con l’aspetto di volgarizzazione radicale, apparentemente folkloristico della politica italiana: che c’entra Pomigliano con le barzellette condite di bestemmie? e i suicidi dei ricercatori con il dito medio che Bossi tira fuori a ogni pie’ sospinto come un pivello gangsta? Come mettere insieme quella politica e quell’altra politica? Si può azzardare qualche ipotesi di lettura?
In realtà non vi sembra come forse il potere stesso oggi si manifesti proprio utilizzando questo bipolarismo di massa come suo referente? Mi faceva impressione mettere a confronto due filmati sorprendentemente simili. Uno è quello famoso della storiella (che è come Berlusconi definisce le barzellette) su Rosy Bindi raccontata a L’Aquila con bestemmia finale. Un altro lo potete trovare in rete ed è una scena di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini: è appena morta una delle ragazze prigioniere delle torture dei vecchi gerarchi quando uno di loro prende la parola e dice: “E così anche le ragazze invece di nove sono otto. E a proposito dell’otto mi viene in mente una storiella (sic). Si tratta di un tale che c’aveva un amico che si chiamava Perotto. Una notte, tornando insieme durante l’oscuramento, i due si sono perduti. Allora il nostro uomo cerca l’amico. E a tentoni cerca cerca cerca, e finalmente gli sembra di vedere qualcosa che si muove nel buio. Tutto contento, pensando di aver trovato l’amico Perotto, grida: ‘Sei Perotto?’, e una voce nel buio risponde: ‘Quarantotto!’”. E giù risate dei torturatori. Inquadrate in controcampo da Pasolini… Come dal cameraman improvvisato col cellulare a L’Aquila…

Anche il contesto dà da pensare. Nel Salò di Pasolini c’è un cadavere appena fresco, a l’Aquila ci sono le macerie ancora da sgombrare. Perché Pasolini aveva scelto di mettere in bocca ai gerarchi repubblichini le barzellette? Perché Berlusconi è così pervicace nel raccontare le sue storielle, scorrette, blasfeme, offensive, puerili in qualunque occasione; o credete che smetterà dopo queste ultime così criticate da Chiesa e comunità ebraiche?
Perché Berlusconi, nel panorama mortifero che ha lui stesso creato, ha deciso d’incarnare ancora il principio trasgressivo, carnevalesco, il rovesciamento di quell’ordine che invece lui stesso dovrebbe garantire?
Perché il potere funziona proprio così: come “trasgressione intrinseca”.

Slavoj Zizek lo mostra perfettamente in Pervert’s guide to cinema quando analizza un brano di Ivan il terribile di Eisenstein: c’è un gruppo di boiardi che, dopo aver fatto piazza pulita dei nemici dello zar, rimette in scena una specie di musical carnevalesco che rappresenta il massacro, sfotte e brutalizza chi aveva osato ribellarsi e che è stato trucidato nel modo peggiore. Come ci fa notare il filosofo sloveno, la comicità messa in scena dal potere non è un surplus folkloristico (come non sono folklore il dito medio di Bossi e le corna di Berlusconi), ma è l’espressione più piena dell’energia distruttiva del potere, la juissance, il godimento, l’orgasmo. La risata dell’Aquila sostituisce l’eiaculazione di un filmato su youporn, come dire.


Ma questo gli è ormai del tutto consentito perché ha a che fare con una società in preda a questa schizofrenia di massa. Che di fronte alla questione del terremoto vive un’emozionalità scissa. Da una parte l’indignazione ininfluente. Dall’altra un desiderio legittimo di ritornare a vivere, di ridere, di essere spensierata. Ed ecco allora che il Berlusconi bestemmiatore e barzellettiere soddisfa in un sol colpo in maniera pavloviana entrambi i desideri: li esaurisce. Non facendo maturare né l’uno né l’altro, ne liquida le possibilità di crescita, e li spazza via dalla politica.
Cosa succederebbe se noi evitassimo di risolvere la nostra critica nell’indignazione da una parte (a sinistra) e di ridere delle barzellette di Berlusconi (a destra)? Forse che questi impulsi legittimi a innamorarci di un uomo, a mettere su famiglia, a vedere ricostruita la nostra città, non verrebbero finto-appagati nell’immediato, introiettati, medicalizzati, in pratica rimossi; ma forse riuscirebbero a essere potenti, arriverebbero finalmente a creare qualcos’altro.

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