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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Le catastrofi ci salveranno?

23 Settembre 2010
di Letizia Paolozzi

Abbiamo avuto un’estate mortifera. In Cina inondazioni e scivolamenti del terreno hanno provocato più di duemila morti. Mille scomparsi, dieci milioni evacuati. In Russia, sono bruciate, per cattiva manutenzione, le foreste. E i roghi hanno distrutto migliaia di ettari, minacciato villaggi, ucciso 54 persone. Nel Kashmir indiano piogge torrenziali devastano, si portano via, assieme a fango e roccia, centonovanta corpi. In Pakistan 1.500 morti per le inondazioni e 8 milioni di persone che chiedono aiuto.
Sono catastrofi naturali, ma l’uomo potrebbe – in parte – prevenirle. Se rinunciasse alla deforestazione, alla crescita urbana dissennata. A Haiti è la povertà che ha ucciso, non il terremoto. A febbraio di quest’anno, un mese dopo le macerie che hanno avvolto Port-au-Prince, la terra ha tremato in Cile causando un numero incomparabilmente più basso vittime.
Certo, i disastri hanno un comportamento anarchico. L’inferno di fuoco che si è insinuato fin dentro la metropolitana moscovita con la crisi del grano russo ha provocato la minaccia del pane in Egitto.
Nel Pakistan che affoga, gli aiuti arrivano in ritardo: una comunità internazionale poco generosa. “Il mondo tarda a comprendere le dimensioni di questa calamità, forse perché un disastro così, per il suo impatto improvviso e le sue drammatiche operazioni di salvataggio, non si presta a essere riproposto in Tv“ dice il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon. L’estate ci ha resi meno attenti? Tra talebani e corruzione, il Pakistan non scuote le coscienze? Il dolore altrui riesce a commuovere solo se mostrato in televisione?
In un mondo saturo di avvenimenti, orrori, guerre, virus, paure, è la televisione a sincronizzare le sensazioni di milioni di individui riuniti virtualmente davanti al piccolo schermo per assistere al crollo delle Twin Towers, allo tsunami. Una sorta di “comunismo delle emozioni“ parafrasando Paul Virilio.
Importanza dei media. D’altronde, fu la stampa del tempo a diffondere per la prima volta il disastro di Lisbona attraverso i racconti dei sopravvissuti. Primo novembre 1755. Tre fortissime scosse di terremoto distruggono la città. Un maremoto con onde alte fino a otto metri accompagna le scosse. Muoiono sessantamila persone. Il terremoto si avverte in tutta Europa, e sulle coste dell’Africa. E suscita analisi contrastanti (Sulla catastrofe – L’illuminismo e la filosofia del disastro, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2004). Per Voltaire “il male è sulla terra e sul mare“. Se la terra su cui abitiamo non è più un punto di riferimento, salta ogni certezza psicologica. Rousseau ribatte che se le costruzioni fossero state a due piani e non tutte ammassate, il disastro non sarebbe stato così devastante.
La catastrofe non è un fenomeno inarrestabile, senza rimedio. Quanto alla prevenzione. E nella sua gestione si possono scorgere sprazzi di luce. In Russia al cattivo equipaggiamento, al numero ridotto di pompieri, paesi e villaggi hanno risposto con un movimento di pompieri volontari. Negli Usa migliaia di persone sono sopravvissute all’uragano Katrina perché vicini di casa, parenti, sconosciuti li hanno tratti in salvo senza aspettare che Bush si muovesse (in ritardo). Centinaia di persone sono invece morte perché appunto esercito media vigilanti pensavano fosse un azzardo evacuare i cittadini, addirittura i malati da New Orleans.
Rebecca Solnit (“Un paradiso all’inferno“ Fandango 2009) nella ricostruzione che spazia dal terremoto di San Francisco del 1906 a quello in Messico del 1985, all’11 settembre 2001 parla di “barlumi di umanità“ nei quali uomini e donne “per la maggior parte animali sociali, alla ricerca famelica di legami“, sperimentano un pezzetto di vita diversa da quella competitiva e solitaria.
Spesso si tratta di donne con la loro capacità di tessere relazioni, di improvvisare un ordine che emerga dal caos. Come in Abruzzo, dopo la distruzione, il dolore, il lutto e lo smarrimento (“Leggendaria“ Terre mutate, n. 81 del 2010). La scuola ha ricominciato da subito grazie alle sue insegnanti. La vita è ripresa in tendopoli, negli alberghi della costa e nelle “casette di Bertolaso”: le artiste e le blogger, le Web-Tv e il teatro, la musica hanno provato a dare senso a questa esperienza. Direbbe Ban Ki Moon che queste donne difficilmente si prestano “a essere riproposte in tv“. Lo sappiamo, eppure rappresentano dei “barlumi di umanità“.

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