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Lotte di classe e tacchi a spillo

28 Agosto 2010
di Alberto Leiss

Per Marchionne la lotta di classe è un fantasma del passato, operai e padroni devono collaborare nell’era “dopo Cristo”, poco importa che – come è stato ricordato (da Gad Lerner su “La Repubblica”) – lui guadagni oltre 400 volte di più di uno dei suoi dipendenti di Melfi o Pomigliano.
Che cattivo gusto, poi, aver usato quell’espressione: “dopo Cristo”. E’ un’epoca che viviamo già da più di 2000 anni, e certo il povero Cristo non sarebbe stato contento di essere evocato all’interno di un discorso così ossessionato dall’obiettivo di convincere – con le buone o con le cattive – chi sta sotto a rassegnarsi a vivere ancora peggio. Buona battuta avergli risposto che per ora il solo a fare la “lotta di classe” è proprio lui. Ancor meglio ricordare che, nel mondo globalizzato, la “lotta di classe” sta risorgendo in Cina: laggiù gli operai e le operaie scioperano e chiedono salari migliori. Roba da non credere.
Se Tremonti, sempre per farsi bello, cita il Berlinguer dell’austerità (irritando Stefania Craxi) , può anche darsi che ritorni prima o poi anche una nuova specie di Internazionale Proletaria.
Ma sì, non ho nessuna nostalgia delle concezioni antiche della “lotta di classe”, ma tutta questa insistenza sul fatto che il “nuovo” e il “futuro” consistano nel calpestare la dignità, già ridotta ai minimi termini, di chi lavora mi fa venire in mente idee che non condivido.
In fondo, non moltissimi anni fa, non si sarebbe trovato nulla di strano nel fatto che nel corso di uno sciopero nemmeno troppo selvaggio si bloccasse un carrello in fabbrica. E qualcuno avrebbe considerato una bella pacchia rivoluzionaria prendere lo stipendio senza dover fare i turni alla catena.
Ma il mondo cambia, e non ce lo deve ricordare Marchionne.
Se il Grande Capo Fiat evoca – proprio mentre la vuole negare – la “lotta di classe”, il discorso pubblico di fine estate è pieno di segni e segnali relativi all’altra grande contraddizione dell’epoca, quella tra i sessi.
Dall’America, dove tutto accade prima, se i democratici vantano il numero crescente di donne autorevoli nei posti strategici dell’amministrazione Obama (giustizia, economia, welfare), i repubblicani rispondono con uno spot in cui si rivendica la molto maggiore avvenenza sexy delle principali esponenti del partito conservatore.
In questo l’Italia sembra veramente al passo con i tempi ( ricordate quella apertura di Libero: “Alla sinistra non piace la gnocca”?). Dopo la denuncia di Veronica sul “ciarpame senza pudore”, nella battaglia tra finiani e berlusconiani esplode la querelle su chi fa carriera grazie a minigonne e tacchi a spillo. E Flavia Perina, direttrice del “Secolo d’Italia”, chiama le donne di destra a reagire alla “lapidazione mediatica” che i giornali vicini al Premier esercitano contro la Tulliani, moglie del presidente della Camera.
“I tacchi a spillo – ha reagito Daniela Santanchè – logorano chi non ce li ha”. Battuta da non prendere sottogamba: guai a ignorare la forza della bellezza femminile. In fondo la destra sembra aver trovato questa “via” per riconoscere a modo suo il nuovo ruolo delle donne: valorizzarne il corpo (ma non solo il corpo). Un meccanismo simbolico (e pratico) che tranquillizza gli uomini sempre più inquieti, ma che non dispiace a molte signore e signorine.
E gli intellettuali, come partecipano a questi significativi dibattiti estivi?
Sollevando – ha cominciato il teo-filosofo Mancuso su “Repubblica” – una sgangherata disputa sul “dimmi con chi pubblichi e ti dirò chi sei”. A parte il simpatico Don Gallo, che ha dichiarato pubblicamete che non lavorerà più con Mondadori, visto che l’editrice del Premier cerca di non pagare le tasse grazie a leggi ad hoc, o meglio “ad aziendam” (questa almeno la tesi di “Repubblica”), tutti gli altri hanno declinato l’invito. Da ultimo, autorevolissimamente, Eugenio Scalfari che a lasciare Einaudi non ci pensa nemmeno. Viene in mente la battuta cara a Mao: hanno sollevato una pietra per farsela ricadere sui piedi.

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