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Vittimismo, alibi per non cambiare

2 Maggio 2010
di Letizia Paolozzi

Vittimismo, malattia dell’anima. Basta stare con il naso incollato ai vetri della finestra per vedere quanti attori e comprimari riempiono il paesaggio italiano. Ne cito alcuni: la Chiesa, Silvio Berlusconi, in qualche modo noi, le donne, fino al “perdente radicale“ di Enzesberger.
Cominciamo dalla propensione della Chiesa che ha gridato al complotto durante la tormenta di accuse sugli abusi sessuali. “Accanimento“, “volontà pervicace di colpire Ratzinger“, virulenza dei “papofobi“, scandalismo mediatico: così nell’entourage vaticano hanno difeso il Papa quando avrebbero, più semplicemente, dovuto ammettere che c’è stata confusione di voci e che il messaggio del Pontefice ha funzionato poco. E’ suonato falso.
Anche se Benedetto XVI aveva scritto una lettera nella quale chiedeva perdono ai cattolici irlandesi; anche se, durante il viaggio a Malta – secondo un testimone – si è scusato piangendo. Ha detto: gli autori degli abusi dovranno risponderne “di fronte a Dio onnipotente come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti“. Dunque, riscontriamo una contraddizione stridente, un problema che attiene alla doppia natura del vittimismo agitato dall’autorità ecclesiastica che, da un lato, rimanda all’arroganza di una Chiesa convinta di dover imporre la propria visione, soprattutto etica (aborto, omosessualità, fecondazione assistita, RU486), dall’altro esprime una profonda incrinatura nel suo prestigio.
Quanto al premier, il catalogo dei supposti tormentatori lo conosciamo: magistrati (quasi tutti), giornalisti (cinque o sei nomi), comunisti (dei fantasmi). Curiosamente, pur avendo molto potere, Silvio Berlusconi tende a depurarlo descrivendosi quasi come non ne avesse. L’esito paradossale del racconto è che una parte dell’opinione pubblica prova l’afflato di proteggerlo. Sicché, il vittimismo deresponsabilizza il capo del governo ma lo rende più popolare.
Ancora, il vittimismo femminile. So bene che il nostro sesso è straziato dalla violenza, appesantito da mille fatiche, eppure la mia, la nostra vita si viene trasformando. Merito nostro, delle donne, delle femministe. Allora, mi spiegate perché ci andiamo a infilare nell’atteggiamento delle povere infelici?
Io me lo spiego così: il vittimismo è una condizione rassicurante che semplifica e non reclama nessun impegno. Gli uomini potenti, sia pure in forme diverse e nevrotiche – da Berlusconi alla gerarchia nella Chiesa, e in genere ai rappresentanti della politica istituzionale – mostrano un riflesso autoprotettivo di fronte ai propri errori. Reagiscono con un mix di aggressività e di debolezza, mentre le donne inscenano un meccanismo rovesciato: dal momento che socialmente e simbolicamente stanno guadagnando autorità, invece di assumersi maggiore responsabilità “politica”, andando oltre il tradizionale dominio dell’”oikos”, rinunciano a intraprendere un conflitto che gli servirebbe a aprire squarci sulla nuova realtà.
Una volta scomparsi i ripari tradizionali, scossi nel profondo i ruoli, seppellite le vecchie sicurezze, se viene erosa l’autorità, il sesso femminile si limita a puntare il dito contro i perfidi maschi, il premier se la prende con “il partito delle procure“, la gerarchia ecclesiastica evoca le trame del “relativismo“. In fondo, rifiutare il cambiamento, può spingere a difendersi con il vittimismo.

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