“Perché non scrivi un ricordo di Roberta Tatafiore?” mi hanno chiesto. E fino a oggi ho resistito. In questi ultimi anni con Roberta ci siamo viste poco, alcune cene di vecchie amiche quando impazzava la discussione sulla moratoria dell’aborto lanciata da Giuliano Ferrara, qualche incontro per caso da Edi, Silvana e Bruno nella loro accogliente erboristeria, luogo di conforto e di massaggio. L’ho vista bene, elegante, curata, quando l’ho incontrata. Sembrava contenta della sua nuova casa, del nuovo quartiere dove abitava. So poco della Roberta di oggi, cioè di ieri, degli ultimi tempi. Per questo non volevo scrivere della sua morte, così scelta e così minuziosamente preparata. Non mi sentivo “autorizzata”. E cercavo, cerco ancora, di fuggire all’obbligo che lei ci ha imposto costruendo un modo così pubblico, così “politico” (dicono alcune), così “filosofico” (dicono altri), di suicidarsi.
Paradosso: la più libertaria delle mie amiche che mi vincola, mi obbliga a scrivere di lei. E questo insieme di libertarismo e autoritarismo assomiglia molto alla Roberta che ho frequentato per tanti anni a “noidonne”. Quando si lavorava insieme, con vera passione, per tenere in piedi il giornale. Era lavoratrice tenace, collaboratrice affidabile, bravissima giornalista. Una donna bella e spiritosa. Piena di rispetto e di ammirazione per la storia delle donne venute prima di lei, soprattutto per quelle che avevano animato l’Udi (l’Unione donne italiane) e che avevano fondato il giornale. Con noi “contemporanee” era più severa, non abbandonava mai la polemica, il gusto di contraddire tutto ciò che le appariva luogo comune, troppo politicamente corretto, femministese d’ordinanza. Insomma, una “bastian cuntrari” che ti obbligava sempre a pensare, se non altro per tenerle testa. Amava, ne sono convinta, quella nostra redazione. Una piccola comunità femminile che cercava di sfidare il mercato per rinnovare un’esperienza editoriale dalla storia tanto gloriosa. Ne era protagonista ma, nello stesso tempo, non ne faceva parte fino in fondo. Riaffermando sempre l’irriducibilità del suo io a qualunque impresa collettiva.
Mi ha insegnato molto. Mi ha obbligato a mettere in discussione il mio moralismo e la mia pudicizia. Sapeva ridere e sapeva far ridere. Un suo pezzo, lo ricordo bene, allegro e spregiudicato, sui guai della menopausa servì a me, e credo a molte altre, per prepararci senza drammi a quell’appuntamento.
Mi ha ascoltato poco, fuori dalle cose di politica e di lavoro, anche quando c’era la confidenza per parlare degli amori.
Nelle ultime settimane aveva detto a tutti che era fuori Roma, in Svizzera, per la lavorazione di un documentario o qualcosa del genere. Lo aveva detto alle amiche, alle persone con le quali collaborava, alle sorelle e alla sua adorata nipote. Aveva dato appuntamento a dopo Pasqua. Infatti è stato il martedì dopo Pasqua che abbiamo saputo che era morta. Ma l’addio, con un cocktail di farmaci, era avvenuto l’8 aprile.
Nei giorni precedenti era rimasta a casa, a scrivere. “Comporre una morte”: così pare sia titolato il memoriale che ha spedito per posta a tre amiche e un amico prima di recarsi nell’albergo dove aveva deciso di morire. Daniele Scalise, l’amico che ha ricevuto il plico, ha scritto ieri su “Il Riformista” che in quel diario “sincero e crudele” Roberta “afferma orgogliosamente di voler essere padrona di sé, più forte del male che dentro, a tratti, la torturava”. Ma non era malata, nel corpo.
Padrona di sé: che cosa obiettare? Avrei voluto avere il tempo di dire come il Plotino di Leopardi all’amico Porfirio: “ti prego caramente, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non voler essere cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni… Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme..”
Lo riconosco, non riesco ancora ad accettare la libertà di Roberta. Soprattutto perchè mi impedisce di litigare con lei sulla scelta più importante.