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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Donne in pensione, sfruttare il cambiamento

18 Dicembre 2008
di monica luongo

Sono a favore di una riforma delle pensioni che estenda l’età pensionabile delle donne a 65 purché “blindata” all’interno di un pacchetto serio di riforme. A seguito della sentenza della Corte di giustizia europea che ha condannato l’Italia per il divario dell’età pensionistica tra donne e uomini in Italia e per la pronta segnalazione di Emma Bonino che nei giorni scorsi ha organizzato a Roma un seminario sul tema, vengono ripresentati dati sempre più allarmanti sulla scarsità di lavoro femminile nel nostro paese: il 46.7% registrato nel 2007 a fronte del traguardo del 60% posto dalla Strategia di Lisbona (dietro di noi solo la Grecia e Malta); all’interno di questa percentuale il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 34 al Sud è di 34.7% contro il 74.3% del Nord. Studi di settore calcolano che la forza di lavoro femminile in Italia non impiegata conta circa tre milioni e mezzo di donne. In Europa il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello degli uomini del 14.4%, in Italia del 24.2% (le laureate occupate sono poco sotto la media europea, 57.5% contro il 59%). E veniamo alle pensioni: i dati Inps e Inpdap dicono che l’importo medio mensile delle donne è pari al 52% a quello dei maschi per le pensioni di vecchia, del 70% per quelle di invalidità, mentre dl 147% quelle di reversibilità per la maggiore longevità femminile.
Di fronte a questi numeri è chiaro che ci si trova di fronte a una situazione socialmente ed economicamente insostenibile per i termini della sua disparità: le donne, già fuori dalla previdenza negli anni in cui fanno figli (tre mesi di contributi figurativi riconosciuti a fronte dei 12 riconosciuti da altri paesi europei), andrebbero via dal lavoro proprio quando ricominciano a essere più disponibili per il mercato del lavoro (figli cresciuti per esempio); sono costrette a dipendere sempre dai redditi del coniugi, per non aprire il drammatico capitolo delle donne single, sistematicamente ignorate da ogni studio di riforma finanziaria e del welfare. A questo si aggiunge la millenaria beffa dell’immane lavoro di cura che le donne – le italiane più di altre – si accollano per una vita, a fronte del quale non vengono nemmeno riconosciuti buoni sconto nei supermercati. A proposito, credo sbagli Lucia Annunziata quando nella sua rubrica di posta su “La Stampa” attacca la lettrice che si lamenta del carico familiare, accusando la maggioranza delle sue sorelle di sesso di non essere brave a rivendicare i loro diritti alla parità con gli uomini che hanno dentro casa: non è questo il momento di continuare a educare le donne, è il momento non più rimandabile per porle al centro del motore socio-economico del rinnovamento italiano, sempre a essere ottimiste, o quanto meno politicamente determinate/i.
Chiaro che non si tratta solo di rispondere all’appello del ministro Brunetta che cavalca la tigre della sentenza europea per risparmiare sull’esborso pensionistico della pubblica amministrazione (dimenticando il diritto di proroga dell’età lavorativa a cui le donne delle PA hanno accesso da circa dieci anni), e non si tratta solo di quella categoria, o limitarsi solo a investire un punto percentuale del PIL, come suggerisce la CGIL.
Si tratta piuttosto di lavorare duro per inserire nella riforma anzitutto il riconoscimento in termini pecuniari del lavoro di cura, e monetizzare in aumento i contributi riconosciuti ai periodi di maternità; imporre l’equiparazione dei salari e delle carriere, e solo infine arrivare alla parità cronologica dell’uscita dal ciclo produttivo dell’impiego (per quelle che lo hanno, ma qui si aprirebbe un lungo e diverso capitolo), magari offrendo alle donne che hanno avuto lavori usuranti o vite particolarmente impegnative la possibilità di scegliere, con una forbice più ridotta rispetto agli attuali cinque anni.
Ma lasciare sospesa alla mercè del primo legislatore questo boccone prelibato di far lavorare le donne a oltranza e senza rete, questo proprio no. Dovrebbe trattarsi di una campagna dura e partecipata, e questo momento di grande crisi ma anche di grande rabbia per i diritti rubati, capace di tenere insieme con determinazione schieramenti politici bipartisan e società civile.

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