“Il mondo è cambiato” (La Repubblica), “Obama fa la storia” (Washington Post), “E’ arrivato il cambiamento” (The Times). La vittoria di Obama è stata interpretata in tutto il mondo come qualcosa che va al di là di un normale “cambio” politico, sia pure al vertice di una nazione potente come l’America.
Emerge l’immagine spettacolare di un possibile mutamento palingenetico, che è emotivamente rafforzata dall’ansia prodotta dalla crisi economica. Nelle analisi del risultato elettorale si pone l’accento su questo: Obama ha vinto spinto proprio dall’aggravamento del crash finanziario. Si sono fatte più chiare le responsabilità della destra che ha governato gli Usa – e tanta parte del mondo – nell’ultimo decennio. E’ aumentata la domanda di un mutamento profondo nelle scelte politiche, economiche e sociali.
In questo c’è sicuramente del vero. Penso però che l’idea di cambiamento a cui da forza e volto il nuovo presidente degli Usa sia qualcosa di più profondo e radicale. E non è soltanto – pure fatto di enorme grandezza – il colore della sua pelle, il riconoscimento di una secolare lotta per i diritti di uguaglianza e per il riscatto razziale.
Non mi sembra un caso che la competizione elettorale in America sia avvenuta nel segno di due differenze: la differenza di razza e quella di sesso. La sfida con Hillary. Lo scalpore e lo stupore suscitato dalla personalità dirompente e discussa di Sarah Palin.
Nella cultura progressista americana spesso non si fa troppa differenza tra le diverse “differenze”. Io credo invece che si tratti di aspetti materiali e simbolici non commensurabili, e che la contraddizione più determinante per lo statuto del mondo contemporaneo sia quella di sesso.
La vittoria di Obama forse sconta il peso di un residuo di misoginia di cui soprattutto Hillary Clinton ha fatto le spese. Ma non credo che la sua vittoria oscuri questo lato del cambiamento che si è annunciato.
Obama è stato votato in maggioranza da latini e afroamericani, ma anche dalle donne, più numerose degli uomini. Ha sentito il bisogno, nel suo commovente discorso della vittoria, di citare la vita di una nera, ma di una donna. E poi dice qualcosa la sua biografia: un padre assente, una madre appassionata e emancipata, le cure di una nonna. Una scuola politica tra eccellenza universitaria e volontariato di strada. Della moglie Michelle ha detto che è “una roccia”.
Ora vedremo le sue scelte per il governo e di governo. Capiremo quale sarà il romanzo biografico e familiare che metterà in scena con la first lady al vertice del mondo. Ormai abbiamo capito che anche la democrazia, attraverso le sue moderne o post-moderne istituzioni spettacolarizzate, ha bisogno di incarnare la differenza dei sessi per mantenere un legame con il popolo. E non è certo detto che sia giusto uniformarsi ai modelli stucchevoli – o alle imbarazzanti infrazioni a questi stessi modelli – che ci arrivano da oltreoceano.
La cosa che ci importa sono le relazioni reali nella vita dei nostri giorni. Credo che le donne abbiamo di che riflettere sui percorsi lungo le vie del potere di Hillary e Sarah, di Michelle. Noi uomini, anche guardando alle attese suscitate dalla parabola di un Barack Obama, dovremo deciderci ad affrontare l’esigenza di un vero cambiamento dei nostri comportamenti. Nella politica, e nella vita. Sì, lo possiamo fare. Ma lo vogliamo fare?