Il Secolo è stato l’unico quotidiano a mettere in prima pagina notizia e commento sulla recente “ordinanza interlocutoria” della Cassazione che apre la strada alla trasmissione del cognome materno ai figli e alle figlie legittimi. L’autrice dell’articolo-corsivo si è augurata che il parlamento ponga presto mano alle proposte di legge giacenti a Montecitorio e a Palazzo Madama, prospettando però che una discussione in merito incontrerebbe una forte opposizione maschile: “Osiamo solo immaginare cosa si inventeranno i numerosi parlamentari uomini ostili all’idea per opporsi alla sparizione dell’ultimo privilegio sopravvissuto al femminismo”, ha scritto.
Ho apprezzato l’ironia e anche quel pizzico di sciovinismo femminile che l’ha ispirata. Anche se credo che la “rivoluzione dei cognomi” non sia da prendere alla leggera, malgrado sia stata codificata da più di vent’anni in altri paesi europei: in Germania (che allora non era ancora riunita) fin dal 1986, poi in Olanda, Francia, Inghilterra e da ultimo in Ungheria.
Rispetto a quei tempi, epoca di progressismo baldanzoso, un nuovo spirito tradizionalista e conservatore alita su gran parte del vecchio e del nuovo continente, e anche in Italia. E’ un vento persistente, che pur non radendo al suolo le conquiste di parità tra donne e uomini acquisite, fischia con un certo furore critico sulle loro conseguenze culturali e politiche. Ma di ciò parleremo in seguito.
Per quanto mi riguarda, sarei contenta se oggi, nel nostro paese, il codice civile registrasse l’esistenza della genealogia femminile, ma non mi entusiasma il fatto che per segnare un siffatto cambiamento di civiltà occorra appellarsi alla parità tra i sessi, come se a noi donne non fosse concesso altro modo di affermarci se non quello di arrivare a essere trattate come gli uomini. Piuttosto: mi piacerebbe sapere quante donne (e quante coppie), nei paesi dove possono farlo, abbiano optato per dare il Nome della Madre alla discendenza. Non sarebbe male, infatti, sottoporre alla verifica dei fatti quelle leggi che affermano diritti paritari. Poiché, se dal punto di vista, diciamo democratico, poco conta se a usufruire di un diritto siano tre milioni o tre persone, molto contano i numeri per capire se questa o quella legge a favore delle donne corrisponda ai desideri delle medesime.
E mi piacerebbe sapere chi sono e cosa pensano Alessandra C. e Luigi F, i quali per ben due gradi di giudizio si sono visti negare la possibilità di attribuire al figlio minore, nato nel 2003, il cognome di Alessandra. E l’esito non è ancora definito, visto che l’ordinanza della Cassazione rinvia la materia alle sue Sezioni Riunite.
Definitori, invece, sono stati due commenti negativi all’ordinanza. Nel primo, a caldo, il vicepresidente della Camera Rocco Buttiglione si è scagliato contro gli ermellini: “farebbero meglio ad occuparsi della giusta, corretta e rapida applicazione delle leggi vigenti invece di arrogarsi la prerogativa di fare leggi nuove usurpando i diritti del Parlamento”, ha detto con palese riferimento a quei magistrati del “caso Englaro” che hanno dato al padre della ragazza, in stato vegetativo da 15 anni, il “permesso giudiziario” di staccare le macchine che la nutrono e la idratano. Nel secondo, su Avvenire, c’è stato lo stesso riferimento, con in più l’accusa di minare la famiglia: “Con il rischio, per il futuro, di vedere stravolgere altri pezzi fondamentali delle regole che presiedono alla nostra vita familiare”. Evidentemente per il quotidiano della Cei, una famiglia non è più tale se non porta il Nome del Padre.
Che alla base della trasmissione del nome paterno ci sia una costruzione simbolica e sociale basata su miti, archetipi e riferimenti religiosi millenari, e che essa abbiano molto contato nel farsi della storia, sarebbe sciocco negarlo. Così come è sciocco negare che la scomparsa di questi riferimenti sia stata relativamente recente e pertanto bruci ancora nell’inconscio. Inoltre, il Nome del Padre garantisce la stabilità contro i capricci del tempo. “Il compito del padre”, scrive Luigi Zoja in Il gesto di Ettore, preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (Bollati Boringhieri 2008), “è proprio contrastare il tempo: istituire una responsabilità che non muti con esso; costruendo continuità e memoria; e rigettare l’azzeramento che il trascorre di ogni generazione comporta”. Lo stesso non può assicurare il Padre che diventa “papà”, figura debole, adolescenziale, priva di autorità, puer aeternus affamato di dare e ricevere leggerezza e tenerezza, effigiato nella pubblicità come il bel giovane ben semi-svestito che tiene in braccio o lancia in aria il pargoletto. Ma non è tutto oro quello che riluce dietro le immagini positive dei “nuovi papà”, perché dietro la dismissione dell’antico ruolo paterno c’è il malessere di molti uomini (non solo italiani) i quali accorrono a frotte negli studi di psicoanalisti e psicologi per dare un senso alla perdita del senso di sé. Mentre altri scoprono lo “stare tra uomini” per combattere lo spirito del tempo dominato dall’invadenza femminile. E altri ancora si sottraggono al desiderio per le donne. Per dire che la fine del Patriarcato, triturato dalla secolarizzazione, dalle rivoluzioni tecnologiche e dalla libertà femminile, ha risvolti assai complicati.
Torniamo all’ordinanza della Cassazione. Essa tocca un nodo nevralgico. Se si toglie al Padre il Nome, gli si toglie la facoltà di separare il Figlio dalla Madre, unico modo per far compiere al bambino invischiato nella cura e nell’affetto femminile quel necessario matricidio simbolico, viatico per entrare da adulto nel mondo. Tutta una letteratura e una pubblicistica prevalentemente maschile, spesso di altissimo livello, afferma questo paradigma come un dogma: Lo fece Jaques Lacan, lo psicoanalista francese, amato da noi femministe perché ci fece scoprire le ragioni per cui aravamo prive del linguaggio e costrette a ripetere le articolazioni logiche dell’uomo. Lo ripropone oggi l’ispiratore della Nuova Destra francese Alain de Benoist (iniziatore di un recentissimo effervescente dibattito su “la femminizzazione della società” pubblicato su Il Giornale). Lo ripete da anni il nostro Claudio Risé e, in maniera più provocatoria il più giovane Eric Zemmour, autore di L’Uomo Maschio (piemme edizioni 2007). L’ordinanza cerca di smontare questo dogma nel quale posto non c’è per la figlia se non come innamorata, talvolta respinta talvolta no, del Padre, in competizione con Madre e per questo impossibilitata a ricevere da lei l’autorità necessaria per stare al mondo. Ma lo fa restando in superficie per via dei limiti dell’ astrazione e della perentorietà con cui si esprime.
L’ordinanza è dunque sbagliata? No, ma è in ritardo di trent’anni.