Scrive Annalena Benini sul Foglio che Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi descrive sì “un percorso di liberazione”, si tratta, è vero, di “diari di donne a cui dobbiamo la nostra libertà”, ma è un racconto “soffocante di infelicità, è una cupezza impossibile da invidiare”.
E infatti noi ragazze nate molto dopo, che non siamo state al Governo Vecchio nel 1978 o a Campo de’ Fiori nel 1972, non la invidiamo affatto, quella cupezza. Ne godiamo serenamente i risultati identificandoci nelle nostre uniche vere eroine (già obsolete e noiose anche quelle?) che sono, è persino ovvio dirlo, le quattro di Sex and The city. Tra le quali, Samantha che, come è universalmente noto, mostra una certa predilezione per il blow job. Pratica che invece non piaceva per niente a una delle ragazze del documentario di Marazzi («mi sento una deficiente a farlo»). L’unica scena, pare, che sia piaciuta ad Annalena. Piccola considerazione a margine: sarà che Samantha è americana, sarà che sono passati quasi quarant’anni, ma la nostra non si sente una deficiente nel praticarlo. Avanziamo una modesta ipotesi di lettura: non sarà per caso che, nello scardinamento dei ruoli definiti che è stato ovunque una conseguenza del femminismo, una si senta libera anche di sentirsi sottomessa nel quadrato magico del materasso dove, appunto, tutto è lecito?
Dice Annalena che il documentario di Alina Marazzi è triste e lascia intendere che lo è stato anche buona parte del movimento femminista che lì viene rappresentato. Eppure a me e a un gruppetto di amiche quarantenni cresciute a pane e Madonna, renitenti alla piazza, mai state femministe e con evidenti crisi di orticaria di fronte a qualsiasi forma di linguaggio o manifestazione veterofemminista, non è sembrato affatto così.
O meglio.
È vero, Vogliamo anche le rose non fa del cabaret e neppure mette in scena la liberazione sessuale da jet society che ci ha raccontato la Ripa di Meana dei suoi gloriosi primi quarant’anni. Non ne fa una narrazione ammiccante e patinata alla Vanity Fair sulle magnifiche sorti e progressive. E tantomeno un’apologia del flower power reparto donna.
Racconta, con documenti autentici e senza accenti particolarmente ideologici, l’unica rivoluzione vera che ci ha portato il decennio ’68-’78 in Italia: quella delle donne. Partita dal basso, sentita nel ventre della società italiana, come dimostra più di una volta il documentario con insert che in qualche caso sono delle autentiche chicche. Come quello della siciliana del popolo profondo – siamo all’incirca a fine anni ’60 – che dice: «Io prendo la pillola. Il prete mi ha parlato della pillola come se fosse chissaché. Non è che io non sia cattolica, ma come fa a lavorare e aiutare la famiglia una donna con cinque figli? Io queste cose le vorrei dire al Papa». Inarrivabile anche la coppia, sempre siciliana, quando lei dice che lui non l’aiuta mai nelle faccende domestiche e che sarebbe pure d’accordo con il femminismo «ma dalle nostre parti non si usa». Sembra Mimì Metallurgico, invece è vero. Dunque in Vogliamo anche le rose non è che non si rida, il punto è che si ride amaro pensando: ma davvero eravamo a quel punto? E per la verità c’è almeno un momento in cui si sghignazza di cuore. Quando si narra – anche questo più vero del vero – il paradosso sulla natura della rivoluzione sessuale così come se la vendevano i maschi (e a volte se la vivevano anche le donne) del movimento. Si lamenta polemicamente una “compagna” in un dibattito open air: «Non è che una è piccolo borghese se non la dà via a tutti!».
La rivoluzione non è un pranzo di gala, questa non ha fatto eccezione. Marazzi la racconta in un intreccio continuo fra individuo e movimento, facendoci sapere i dubbi, le paure, le incertezze che noi, le nipoti cazzeggione che ci possiamo permettere molte cose anche perché abbiamo un bagaglio leggero non sapevamo, non avevamo nelle nostre categorie. E i diari non parlano una lingua cupa, usano piuttosto le parole di chi per la prima volta riflette con se stesso su qualcosa fino ad allora totalmente off limits.
Come l’aborto: «Era così normale parlarne, ma in verità non sono così sicura di avere scelta, forse non ho mai avuto scelta».
Come la sessualità. Ed è Ian Mc Ewan, la Florence di Chesil Beach che viene in mente quando una delle ragazze spiega il suo rapporto con il sesso, la sua fatica a entrare in contatto con quella sfera così lontana da sembrare non adatta a sé. Al punto da finire da un terapeuta. Capiamo così che c’è stato un tempo, a noi ignoto, in cui scoprire il piacere femminile – e, Benini mi perdoni il termine, il diritto al piacere femminile – ha significato per le donne farci sopra anche un lavoro emotivo.
La stessa cosa si può dire per l’amore: «Amore è una parola equivoca, qualcosa che genera un sistema di dipendenze», recita uno dei diari che Benini trova da taglio di vene. Ma se oggi possiamo viverlo non come un sistema di dipendenze è perché loro, le nostre zie, ci hanno ragionato sopra, hanno cercato di uscire da quella logica sotterranea che ha a lungo vincolato le loro madri. E peraltro io penso che non ci siano riuscite neanche troppo bene perché sul versante “autonomia emotiva dai maschi” non hanno dato propriamente il massimo. Ma del resto hanno già fatto il lavoro grosso, le rifiniture possiamo anche farcele da noi.
Tutto questo non fa ridere. Fa riflettere. Ed è quello che Marazzi vuole. Il suo documentario è storia di donne. Non è particolarmente ideologico o apologetico. Piuttosto sono ideologiche le letture che lo fanno passare come tale solo perché detestano la retorica del femminismo. Che qui peraltro non viene praticata.