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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Le quote viste dall’India
il primo paese che le ha usate

3 Agosto 2007
Questo articolo è già apparso sul quotidiano "il Riformista"
di Mariella Gramaglia

Si discute di riequilibrio della rappresentanza fra i sessi, in India come in Italia. La scelta delle associazioni delle donne italiane, dopo tante frustrazioni, è radicale: cinquanta per cento di donne in parlamento. L’obiettivo delle donne indiane è più graduale, ma in parte già realizzato: trentatré per cento di donne a tutti i livelli della rappresentanza politica, dal consiglio di villaggio al parlamento nazionale. Una legge federale del 1992 ha reso obbligatoria la quota del trentatré per cento nei consigli di villaggio, di area e di distretto, mentre l’estensione del principio a livello di parlamenti statali e di rappresentanza federale si affaccia e si inabissa nel dibattito politico nazionale ormai da più di quindici anni. Quanto alle elezioni locali non mancano le autocritiche nel movimento delle donne: si è fatta poca formazione politica, la rete delle relazioni femminili non si è rivelata abbastanza solida, troppo spesso mariti, fratelli e boss locali di partito hanno teleguidato una donna-ombra rispettando formalmente la legge.

Tuttavia in India le quote sono un problema di potere e di opportunità, non di principio. Qui il principio non scandalizza nessuno: l’India è la patria delle quote e la sua politica di inclusione sociale dei dalit (intoccabili) e delle popolazioni adivasi (tribali) data dagli anni cinquanta, ben prima del dibattito americano sui neri e sulle minoranze etniche. Dalit e adivasi (“scheduled tribes and casts”- come recita il gergo burocratico) hanno diritto a 76 seggi riservati nel parlamento federale, al quindici per cento di posti nelle assunzioni dirette e nei concorsi per gli uffici pubblici e a molte facilitazioni, che variano da stato a stato, nei percorsi di istruzione . Una nuova legge federale, attualmente bloccata dal parere negativo della corte suprema, fisserebbe al 27% la quota riservata a dalit e adivasi in tutte le scuole.

Ma, diversamente dalla discussione sul riequilibrio della rappresentanza tra i sessi, che ha un andamento carsico e fondamentalmente pacifico, la questione delle quote, diciamo così, sociali infiamma il paese fino a creare da sempre conflitti cruenti. Solo un mese fa ci sono stati trenta morti, 15 giorni di battaglie nelle strade e tutte le ferrovie bloccate in Rajasthan durante le sommosse organizzate dalla tribù Gujjar contro la tribù Meena: la prima aspira ad entrare nell’elenco delle caste e delle tribù classificate, cui la seconda già appartiene.
La storia delle quote in India è tutta politica. Volute dopo l’indipendenza da Gandhi, da tutti i padri della patria e dai leader del congresso, sono state fino alla metà degli anni settanta il grande discrimine fra destra e sinistra. L’India nuova doveva trovare una misura forte per riscattarsi da un senso di colpa atavico e molto carnale: il legame fra la discriminazione sociale e la repulsione fisica, la distanza senza correttivi morali, anzi legittimata dalla religione prevalente, nei confronti dei più deboli e dei più sfortunati. Così per decenni gli uomini e le donne più autorevoli dell’India hanno marciato contro i baroni universitari e contro i disgustati studenti agiati figli di bramini per far capire loro, con le buone o con le cattive, che i tempi erano cambiati. Ed effettivamente i tempi sono cambiati. Negli anni ottanta, anche qui laici e moderni almeno nelle università, i ragazzi sembrano dimenticarsi di appartenere a una casta e trovano di cattivo gusto investigare sulle appartenenze altrui: sono i figli della generazione che ha fatto l’India, hanno viaggiato, pensano che si tratti di mali antichi in via di sparizione. Poi, con gli anni novanta e il nuovo disordinato sviluppo, tutto cambia di nuovo. La nuova destra induista (BJP), che con i valori e la cultura dell’indipendenza non ha nulla a che fare, acquista un peso sempre maggiore. Cambiano i comportamenti elettorali: i ceti medi disertano le urne, mentre gli slum diventano preziosi bacini elettorali per i più abili; destra, centro, sinistra, poco importa. A questo punto le quote acquistano una nuova connotazione: non si tratta più di usarle per superare le caste, ma per rappresentarle. Infuriano le battaglie per essere inclusi nella preziosa lista dei “classificati”, nascono dalle masse dei diseredati nuovi segmenti di ceto politico e di classe media , si negozia con il miglior partito offerente, spesso a prescindere dall’ideologia. Il risultato è paradossale: tutti i parlamentari federali di tutti i partiti sono favorevoli alla nuova legge sulle quote nell’istruzione, mentre la maggior parte dell’opinione pubblica, anche qui a prescindere dalla collocazione politica, è contraria.

Il dibattito più colto è ormai orientato a trovare correttivi alle quote. C’è chi sostiene che chi è stato aiutato dalla collettività a studiare deve restituire ciò che gli è stato dato attraverso tre anni di servizio civile nelle comunità davvero più povere. C’è chi propone una correzione più radicale: l’abolizione delle quote e loro sostituzione con indicatori più generali di disagio sociale individuale su cui basare tutte le politiche di welfare. Insomma una soluzione all’europea, teoricamente ottima, ma che richiede grande flessibilità ed efficienza dello stato.
Ciò che colpisce, tuttavia, è l’enorme distanza, teorica e pratica, più clamorosa qui che altrove, fra la questione delle quote nei termini che riguardano le donne e in quelli che riguardano gli altri . Gli altri soggetti hanno dalla loro il vantaggio di funzionare come gruppi di pressione più potenti e più determinati, capaci di stare sulla scena politica a qualsiasi prezzo. Le donne,invece, hanno in mano un’altra carta, sempre che la vogliano giocare: la loro non riducibilità a gruppo, a problema sociale, a pura rappresentanza cangiante di interessi.

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