Monica Luongo ha incontrato la candidata locale e le sue sostenitrici, (“case di fango, muri di cinta fatti di stuoie, capre, per le più fortunate un asino”), in una piccola stanza, una stuoia per gli ospiti, e tanti bambini. Non siamo in Francia ma in Nigeria. Si è votato, sabato 21 aprile, per le presidenziali e per le due camere. Ma a leggere il “diario nigeriano” di Monica, pubblicato su www.donnealtri.it, si stringe il cuore. “Vedo in tv gli speciali della BBC sulle elezioni francesi –scrive – mentre qui ho visto voti comprati, interi contenitori con i voti già dati portati via dalla polizia, bambini e bambine ammessi a votare e pagati con pochi centesimi di dollaro”.
Nella Nigeria del Nord dal 1999 è in vigore la sharìa. E’ là che Samira e Amina hanno rischiato la lapidazione per aver partorito un figlio fuori dal matrimonio. E’ là che lo scorso settembre sono state bruciate sedici chiese cristiane. E’ là che le donne muoiono più di parto che di Aids. Ma la candidata è coraggiosa, viene da una famiglia illuminata. Il marito le fa da portavoce ( e la scorta ovunque) e bada ai nove figli. Una campagna elettorale costata 200 morti tra il 14 e il 21 aprile. Ma è la prima volta dall’indipendenza che un presidente civile cede il testimone a un altro capo di stato scelto dagli elettori. Senza colpi militari (Apcom , 23 aprile). Il candidato del governo Yar’Adua ha vinto con 24 milioni di voti contro i 6 del suo rivale diretto. Secondo il capo della missione di osservatori “questo scrutinio è stato relativamente accettabile”.
Molto partecipato lo scrutinio francese al primo turno. Alla faccia della misoginia anti Ségolène, ricordata da Libèration il 10 aprile scorso in un bell’articolo-inventario. Nove milioni e mezzo di francesi infatti hanno voluto la Royal come avversaria di Nicolas Sarkozy. Anche se è troppo carina, troppo sorridente, troppo materna. Anzi, forse, l’hanno scelta proprio per questo. Ha fatto della femminilità un vantaggio, una risorsa politica. (Oppure soltanto elettorale). Almeno tanto quanto Sarkozy ha giocato la virilità (paterna?) nella costruzione della sua immagine di vincente (vedi Ida Dominijanni sul Il Manifesto, 24 aprile).
Quasi tutti i commentatori sono convinti che a Ségolène, non basterà per diventare presidente aver “giocato da sola contro tutti, facendo di questa scelta il simbolo di una libertà femminile che non si lascia smontare dalle burocrazie e dagli apparati” (Ritanna Armeni, Liberazione, 24 aprile). Né aver “voluto diventare leggenda, scegliendo come icona una santa –Giovanna D’Arco- e vestendosi il più delle volte di bianco” (Barbara Spinelli, La Stampa, 23 aprile).
Ma l’evento c’è comunque stato: la “fragilità femminile” (come scrive Miriam Mafai, La Repubblica, 23 aprile) è entrata trionfalmente in politica. Senza dissimularsi. E questa è la novità. E se “la differenza uomo donna ha risvegliato l’interesse per la democrazia, è attraverso il suo mantenimento che questa democrazia si può sviluppare” (Luce Irigaray, La Repubblica, 24 aprile).
Altro film ancora è quello che si è visto in Finlandia. Il primo ministro Vanhanen, leader di centro destra, ha assegnato 12 dicasteri su 20, a donne, tutte quarantenni. La cosa è apparsa abbastanza normale nel paese che prima di ogni altro al mondo aveva riconosciuto alle donne il diritto al voto (La Stampa, 20 aprile).