Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

Documento di a/matrix

30 Aprile 2007
Questo testo è l'anticipazione di un documento in via di elaborazione da parte delle donne di a/matrix

Nonostante i cambiamenti intervenuti nella famiglia e la moltiplicazione
delle forme familiari, rimangono inalterati i rapporti di potere tra i
sessi. Malgrado si proclami l’eguaglianza tra donne e uomini l’appropriazione
del corpo delle donne resta il paradigma delle relazioni familiari.
La violenza rappresenta ancora una caratteristica diffusa della struttura
familiare: la violenza sessista da parte di compagni, mariti, padri, fratelli
è infatti la principale causa di morte e di invalidità permanente delle
donne tra i 16 e i 44 anni in Europa. E’ strumentale, quindi, denunciare
solamente la violenza compiuta da uomini di cultura non occidentale e tacere
sulle violenze degli uomini italiani contro le donne, italiane e migranti.
Se c’è qualcosa che unisce gli uomini di ogni cultura è infatti proprio
la violenza contro le donne che è funzionale al mantenimento di rapporti
di potere tra i sessi.

Eppure la famiglia diventa sempre più oggetto di
promozione e tutela da parte dei pubblici poteri. Il governo di centrosinistra
ha ripristinato, come durante il fascismo, un ministero apposito. La stessa
disciplina sulle convivenze di fatto Di.Co, in discussione al Parlamento,
finisce per riproporre il modello unico della famiglia tradizionale, invece
di consentire a tutt@ il libero esercizio dei propri diritti e delle proprie
responsabilità.

Della volontà di difendere la famiglia resta emblematica
la legge 40 che, contro ogni forma di autonomia delle donne, impone di
essere in coppia eterosessuale per poter accedere alla procreazione medicalmente
assistita (pma). Questa legge ripropone la scissione tra gestante ed embrione,
mettendo in contrapposizione i diritti delle donne con il bene del concepito.
Creando lo statuto giuridico dell’embrione si vuole ristabilire il controllo
sul corpo delle donne e sulla riproduzione che sono tuttora il cuore del
potere patriarcale.
La gestione della riproduzione è, infatti, parte essenziale
della divisione sessuale del lavoro. Le relazioni tra i sessi sono ancora
fortemente segnate da una divisione del lavoro del tutto sbilanciata a
sfavore delle donne in quanto mogli, compagne, amanti, sorelle, figlie,
nonne.
Già trent’anni fa le donne di Lotta femminista rivendicavano, in
attesa della sua socializzazione, il salario per il lavoro domestico. Da
allora, se si è prodotta la cosiddetta “femminilizzazione” del lavoro,
non si è verificata però una “maschilizzazione” del lavoro di cura e di
ri-produzione. Nonostante le caratteristiche del lavoro cosiddetto femminile
– capacità relazionali, disponibilità e reperibilità assolute – siano diventate
paradigma generale delle nuove forme della precarietà, il lavoro di cura
e ri-produzione continua a non trovare riconoscimento e ad essere compiuto
esclusivamente dalle donne. Se nel discorso politico corrente al lavoro
“produttivo” vengono riconosciute le caratteristiche di quello “riproduttivo”,
non avviene il contrario, ossia non si riconosce al lavoro riproduttivo
il suo carattere, appunto, di lavoro.
Crediamo che l’esternalizzazione
di quest’ultimo alle donne migranti e la sua conseguente monetarizzazione
non abbiano modificato la divisione sessuale del lavoro. Negli anni 70
la parte del movimento femminista che ha chiesto un salario contro il lavoro
domestico aveva colto la centralità di una lotta per il riconoscimento,
come lavoro, delle attività di cura che le donne, non retribuite, svolgono
nelle famiglie. Questa forma del lavoro è l’unica che non sia strutturalmente
cambiata. Oggi che strumento abbiamo per cambiare le cose?
Noi oggi non
chiediamo il salario solo per – e quindi contro – il lavoro domestico,
ma un reddito per l’autodeterminazione per tutt@ come strumento per sovvertire
la divisione sessuale del lavoro e per scardinare l’impianto familista,
lavorista e nazionalista dello stato sociale. Per potere uscire dalla famiglia
e dal lavoro è necessario pretendere un reddito sin dal momento della nascita,
scisso da ogni stato civile e condizione produttiva. Solo il riconoscimento
del reddito anche ai minorenni libererebbe le donne del peso che ancora
sopportano per la cura dei figli.

Un reddito permetterebbe di non trovarsi
costrette e costretti ad accettare condizioni di lavoro poco dignitose,
spesso in grado di spegnere anche la passione più sfrenata per la propria
attività. Non c’è sciopero che tenga di fronte alla possibilità stessa
di sottrarsi al lavoro! Il reddito è lo strumento più robusto di cui le
lavoratrici e i lavoratori possono servirsi per ridisegnare le regole dello
stesso lavoro.
La possibilità di liberarsi dal lavoro percependo un reddito,
infine, potrebbe favorire il diffondere di stili di vita improntati alla
decrescita e liberi dal consumismo compulsivo in cui ti spinge un lavoro
poco gratificante che risucchia tutta la tua esistenza.
Il reddito è una
pretesa legittima, almeno finché si aspira all’autodeterminazione.
La rivendicazione
di un reddito, di per sé economica e materiale, ha secondo noi anche un
valore simbolico e deve essere accompagnata da una battaglia politica.
Il reddito che chiediamo è contrapposto agli assegni familiari e a tutte
quelle politiche che legano l’assistenza al “ruolo nella società”: nel
caso delle donne quello di “riproduttrici della specie” o almeno di “dolce
metà” di un uomo. In questo senso intendiamo il reddito, individuale e
incondizionato, anche come strumento simbolico di liberazione dal dispotismo
emotivo della coppia che viene proposta come destino sociale, luogo del
privilegio emotivo, il privato opposto al resto del mondo.

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